RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Il Veneto di Fellini, di Fabrizio Borin

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Un regista come Federico Fellini, forse il più importante artista internazionale del Novecento italiano, ispiratore di diverse generazioni non soltanto di cineasti, ma di intellettuali, scrittori, creativi in varie arti, vincitore più volte di Premi Oscar, Leoni e Palme d’oro oltre che di innumerevoli altri alti riconoscimenti mondiali, presenta ancora oggi un aspetto che chi scrive ritiene di un qualche interesse. 

Ci si riferisce a quello che lo stesso autore ha segnalato, a suo modo difeso, e più volte raccontato all’interno del personalissimo e potente orizzonte realistico-visionario della sua intera carriera. Vale a dire il sempre autoproclamato provincialismo riminese; una sorta di neologismo che certo non può essere equiparato né alla parola paparazzo e neanche al termine felliniano, ma che in qualche modo fotografa e mette a fuoco un aspetto per molti aspetti inedito della magia e della poetica del regista autore de I vitelloni. Nato, appunto, a Rimini nel 1920 ha esibito la propria provenienza geografico-culturale come una cifra stilistica e ispirativa senza la quale – analogamente, per esempio, alle musiche dell’amico Nino Rota – il suo cinema sarebbe stato molto diverso. 

E se dunque del borgo riminese e della Romagna abbiamo moltissime tracce indelebili nei film, come per esempio nell’emblematico Amarcord, non considerando il Lazio e Roma/Cinecittà per ovvie e scontate ragioni di location, forse restava una sola provincia, o per meglio dire, una regione con la quale Fellini ha interagito in molte occasioni, e questa regione è il Veneto nei suoi “incontri ravvicinati” con alcune località, con artisti, attori e attrici, persone, personaggi storici, amici e studiosi, con le diverse inflessioni dei dialetti veneti e certamente anche con Venezia.

Non per una immotivata autocitazione, ma in un mio recente saggio dal titolo Venezia e il Veneto nell’immaginario di Federico Fellini (Il Poligrafo, 2024) si ripercorre la filmografia felliniana dalla quale emergono le molteplici presenze, le atmosfere, i temi, gli spazi e le narrazioni anche linguistiche dei luoghi veneti spesso visitati di persona, ma soprattutto con la fantasia, dall’autore del Casanova; luoghi della memoria – vera, ma più spesso reinventata – in una sincera e riconoscente attestazione di simpatia e affezione, oppure di disagio. Come, per l’appunto, a proposito delle difficoltà incontrate nel girare la storia dell’avventuriero e scrittore veneziano della quale il nostro regista vuole, riuscendoci pienamente, smontare e distruggere il mito stereotipato del settecentesco veneziano. 

Per molti anni Fellini ha pensato a Venezia come luogo mentale e spazio fisico “altro” rispetto alla modernità e lo immaginava come una entità privilegiata della fascinazione visuale dentro cui ambientare le sue storie. Soprattutto sulla fine degli anni Settanta, ovvero dopo Il Casanova, il regista ossessivamente pensava alla città, si documentava e consultava sovente gli amici e studiosi Carlo Della Corte (Venezia, 1930-2000), Tiziano Risso, Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921-2011) e parecchi altri intellettuali, giornalisti, scrittori come il vicentino-trevigiano Goffredo Parise (1929-1986), collaboratore, insieme a Brunello Rondi, per Le tentazioni del dottor Antonio e lo scrittore romano, ma veneziano d’adozione, Daniele Del Giudice. Scrive un soggetto, Venezia, per misurarsi con la contraddizione per la quale sosteneva che era impossibile fare un film sulla città dei dogi, un set sempre attivo, una non-dimensione terrestre e acquatica allo stesso tempo, onirica, decadente e pseudo-romantica, tutti elementi che depongono, a suo dire, a favore dell’idea di non fare un film su Venezia, una città che è praticamente un film già pronto. E però, essendone attratto, per molti anni Fellini, lo si ripete intenzionalmente, ha pensato a Venezia come magico luogo mentale e dimensione fisica aliena rispetto alla modernità e lo immaginava come entità privilegiata della fascinazione dentro cui ambientare le sue storie. 

Donald Sutherland interpreta Giacomo Casanova (Wikimedia Commons)

Di tutte le persone e i personaggi che affollano la sua ricca galleria veneta, vale la pena ricordarne brevemente almeno due, il gesuita Arpa e lo scrittore Simenon. Si dirà, ma cosa c’entra lo scrittore belga creatore del commissario Maigret con il Veneto e Fellini? Con il regista c’entra moltissimo perché lo scrittore, presidente di giuria al festival di Cannes nel 1960, si batterà per far vincere la Palma d’oro a La dolce vita; e anche perché poi, nella loro lunga amicizia, avranno modo di scambiarsi molte lettere sul loro lavoro, sull’esistenza e sulla “filosofia” della creazione artistica al punto che per Simenon il film Il Casanova di Federico Fellini – così intitolato per problemi di sfruttamento del titolo – era addirittura una «psicanalisi dell’umanità». Ma Georges Simenon ha connessione con il Veneto anche in virtù del fatto che si trovò ad avere in casa, in Svizzera, una giovane cameriera, Teresa Sburelin, forse di Venezia e certamente veneta, che negli anni diventerà figura centrale ed essenziale nell’esistenza dello scrittore, al punto da diventarne la segretaria, la governante, la compagna, l’amante, l’infermiera assistendolo fino alla sua morte per poi essere praticamente dimenticata. Un personaggio degno di interesse sul quale potrebbe essere utile sapere qualcosa di più.

La seconda persona è il veneto Padre Angelo Arpa, un amico, sostenitore, confessore, sia del regista che della moglie Giulietta Masina. Un trait d’union assolutamente decisivo. Già il luogo di nascita è rivelatore del destino che dovrà unire i due uomini. Nasce infatti in un paese del trevigiano nell’area di Castelfranco Veneto che ora si chiama Castelminio di Resana, ma che un tempo e fino al 1957, portava il nome di Brusaporco. E se si leggono le prime pagine di quello straordinario ritratto filmico costituito dal libro Fare un film in cui la scrittura visiva di Fellini restituisce e anticipa il suo mondo di memoria e di inventiva, si trovano le descrizioni di alcune figure e maschere del paese di Gambettola (oggi provincia di Forlì-Cesena) delle vacanze estive, integrate poi anche con i tipi particolari di Rimini visualizzati in seguito specialmente nelle narrazioni de I clowns (1970) e di Amarcord (1973):

Quando penso a Gambettola, a una monaca alta due centimetri, ai gobbi al lume del fuoco, agli sciancati dietro i tavolacci, mi viene sempre in mente Hieronymus Bosch [forse perché il nome originario del paese dell’entroterra romagnolo fino al Novecento era Bosch (Il Bosco)].   

Da Gambettola passavano anche gli zingari, e i carbonari che trasmigravano verso le montagne dell’Abruzzo. Di sera, preceduta da urla orribili di animali, arrivava una baraccaccia fumigante. Si vedevano scintille, una fiamma. Era il castratore di porci. Arrivava, sullo stradone, con un mantellaccio nero e un cappello in disuso. La sua apparizione, i porci la sentivano in anticipo: perciò grugnivano spaventati. L’uomo portava a letto tutte le ragazze del paese. Una volta mise incinta una povera scema e tutti dissero che il neonato era figlio del diavolo. L’idea per l’episodio Il miracolo, nel film di Rossellini, mi venne di lì. Venne di lì anche il turbamento profondo che mi indusse a realizzare La strada.

Casa Fellini di Gambettola (Forlì-Cesena). Luogo FAI

Ecco, piace pensare che Arpa e Fellini nelle loro lunghissime conversazioni in auto o sui set dove il religioso era spesso presente, abbiano commentato questa cosa dei maiali, anche per la curiosità e l’interesse innato del regista per situazioni, cose e nomi pieni di misterioso fascino come le località romane di Saxa Rubra, l’infernetto e in special modo i Cessati Spiriti.  

La vita del regista sarà segnata dalla partenza nel 1934 da Rimini per Roma (leggi: Moraldo ne I vitelloni) e quella di Angelo Arpa, nato nel 1909, undici anni prima di Fellini, lo vede entrare alla fine degli anni Venti nella Compagnia di Gesù. Pochi altri dati per delinearne il profilo. Dopo la laurea insegna filosofia nell’Istituto Arecco di Genova dove si appassiona al cinema partecipando alle esperienze del “Cineforum” prima di organizzare nel 1965 il primo Festival Cinematografico Internazionale dell’America Latina a Città del Messico. Primo di cinque fratelli e due sorelle, figlio dei benestanti contadini Maria Burato e di Giuseppe, proveniente da una famiglia di lontana origine ungherese, dopo il ginnasio frequentato dal 1921 al ’25 al Cottolengo di Torino, il seminario della Piccola casa della Divina Provvidenza, il giovane Angelo entra nel noviziato della Compagnia di Gesù a Gozzano in provincia di Novara, prima di essere ordinato sacerdote a Chieri (Torino) il 30 maggio 1940. Solo due anni dopo è nominato padre spirituale e docente di filosofia presso l’Istituto “B. Arecco” di Genova dove rimase per più di vent’anni.

Convinto dell’importanza e dell’impatto del cinema quale volano della diffusione della cultura artistica e vero appassionato della settima arte, sul modello del Cineforum di Roma del prete domenicano Félix Morlion, nei primissimi anni Cinquanta fonda il fortunato Cineforum cattolico genovese che poteva ampliare, anche con i vivaci dibattiti condotti da Arpa, l’offerta del Circolo del cinema, l’attivissimo cineclub laico diretto dal futuro giornalista e critico cinematografico e teatrale Giulio Cesare Castello, da Claudio Bertieri e da Giannino Galloni.

A seguito della conoscenza con Fellini nel 1954, ancora negli anni Cinquanta, apprezzato consigliere culturale del cardinale di Genova Giuseppe Siri, riuscì a non rendere il regista ostile agli ambienti cattolici in relazione all’uscita del film Le notti di Cabiria (1957) cui la censura aveva negato il visto che avrebbe comportato la distruzione delle bobine del film, considerando la pellicola blasfema (lo “scandalo” consistendo, secondo la commissione, nelle sequenze del pellegrinaggio delle prostitute al Santuario romano della Madonna del Divino Amore). La visione della pellicola da parte dell’arcivescovo Siri permise a padre Arpa di ottenere un giudizio positivo sul film cui fu tolta la censura. Ci fu tuttavia una scena che Siri volle fosse tagliata ed è quella del cosiddetto “uomo del sacco” che la prostituta Cabiria incontra una mattina presto uscendo dalla villa del divo Amedeo Nazzari; l’uomo, un volontario benefattore, girava per le borgate romane aiutando i bisognosi e in quegli anni, quest’attività disinteressata avrebbe potuto suggerire un deficit assistenziale cattolico.

La dolce vita, Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella famosa scena della Fontana di Trevi (Wikimedia Commons)

Superate con grandi difficoltà le analoghe vicissitudini censorie per La dolce vita, il gesuita rimase, come detto, consigliere-amico del regista, il quale gli faceva leggere in anteprima le sceneggiature dei suoi film e persino le tesi di laurea scritte su di lui. 

Ascoltato consigliere anche di altri autori del cinema neorealista italiano che faticava ad essere pienamente compreso e accettato, come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, promuovendone i lavori presso il pubblico, nel 1964 fu consulente per lo scabroso e scomunicato Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, ampiamente riabilitato solo molti anni dopo.

Tra le altre benemerite attività in campo cinematografico, padre Arpa fu anche produttore fondando La Golden Star International che produsse lo sfortunato Era notte a Roma (1960) di Rossellini e a seguito delle attività del Cineforum e alla nascita a Genova della Fondazione Colombianum per i rapporti culturali con l’America Latina, ebbe la sventura di vivere il fallimento finanziario sia della casa di produzione che della Fondazione, cosa che comportò per lui gravi conseguenze personali: l’arresto nel 1967 e l’espulsione dalla Compagnia di Gesù. 

Prete scomodo e forse anche ingenuo in materie economiche, Arpa passò gli ultimi decenni della sua esistenza presso la Domus Romana, la Casa Romana del Clero non rinunciando a concedere la sua consulenza religiosa al film Il nome della rosa (1986) di Jean-Jacques Annaud dal palinsesto del romanzo omonimo di Umberto Eco. Non rinunciando altresì nel 2002 a godere del vitalizio della legge Bacchelli per meriti culturali, anche se solo per un anno.    Nel marzo 2003 infatti morì per arresto cardiaco al Policlinico Portuense di Roma e i suoi funerali furono celebrati nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, sede della curia dei Gesuiti con l’orazione funebre di padre Federico Lombardi, al tempo direttore della Radio Vaticana. Un ultimo omaggio a un intellettuale lucido, coltissimo, riflessivo saggista e scrittore nonché… un grande, competente ed entusiasta critico cinematografico veneto. In una lettera a Fellini scritta da Lughignano sul Sile (TV) il 15 agosto 1979 e pubblicata nel libro L’Arpa di Fellini si legge di un «vago sentire di fine che da sempre non riusciamo a contrastare. Eppure, è la vita che ci appartiene come dono e mistero, che al tempo deve solo la liberalità di un passaggio». Sembra già di leggere le parole di Arpa nel ricordare l’agonia del regista. Che muore a Roma il 31 ottobre 1993.


Fabrizio Borin, saggista, già professore di Storia e critica del cinema e di Filologia cinematografica all’Università Ca’ Foscari di Venezia.


Immagine di copertina
Federico Fellini, 1965. Walter Albertin, World Telegram staff photographer (Wikipedia)

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