Ma il poeta evolve nuova vita – perché germoglia
semente infinita
(Giocondo Pillonetto, dal taccuino del 1952)
Era una sera di febbraio del 2017, quando, intorno ai tavoli di legno di una vecchia “osteria senza insegna” di una borgata non lontano dal corso del Piave, presentavo assieme a Miro Graziotin e Luciano Cecchinel un mio lavoro appena pubblicato, dedicato alla produzione del poeta di Revine-Lago. Non era la prima volta che sostavo in quel luogo senza tempo: due stanze comunicanti, la principale con gli arredi anni Cinquanta, un bancone semplice dietro il quale è addossato un mobile con in vista sugli scaffali una vasta scelta di liquori; alle pareti fotografie, poesie e manifesti politici: testimonianza viva di un “poeta-oste” che aveva fondato e gestito quell’osteria, tenuta poi in vita dalla sua unica figlia e divenuta un intimo luogo d’incontro per artisti, scrittori e studiosi: Giocondo Pillonetto (1910-1981).
Credo che sia nata proprio quella sera la necessità di saperne di più, su quello che la penna di Mario Rigoni Stern aveva definito “il poeta segreto”. Così, alcuni mesi dopo, con Giuliano Galletti ─ autore di romanzi e di brillanti ricerche di storia locale col quale avevo già un sodalizio consolidato da qualche anno ─ ho deciso di proporre al comune di Sernaglia della Battaglia e a Silmava Pillonetto un progetto di ricerca che, ripartendo da quel luogo, l’osteria, da confidenze familiari, da racconti quasi leggendari e dall’unica raccolta di poesie pillonettiane, la postuma Penultima fiaba (1983), s’incontrava con l’ignoto di una vicenda e di una documentazione del tutto ipotetiche.
Nell’autunno del 2017 il progetto ha cominciato progressivamente a concretizzarsi, sotto la forma ancora spuria di un titolo-tema: «L’eredità di Giocondo Pillonetto: l’osteria, i taccuini»; e dopo l’approvazione delle diverse parti l’esperienza, invero totalizzante, è cominciata. Eravamo ben lungi dal sapere che quel lavoro ci avrebbe assorbito per tre anni in ricerche, letture e scrittura. Le notizie scarne e la documentazione limitata che avevamo in mano all’inizio erano solo la punta dell’iceberg; i documenti (diari, taccuini, manifesti, abbozzi narrativi e teatrali, disegni, dipinti, fotografie, reliquie e oggetti vari) sarebbero stati una continua scoperta, che ha reso necessaria una sempre più netta scelta di campo e di stile.
Le due stanze d’osteria si sono trasformate in un archivio-biblioteca, presso cui spendere pomeriggi, assieme a Silmava e al suo gatto, raccogliendo fogli e memorie dai quali citare le trovate geniali, trarre le testimonianze dirette, spremere la verità di un fare letterario incessante e privato. La biografia che stavamo componendo diventava, in realtà, un discorso polifonico, nel quale la voce mia e di Giuliano Galletti entravano in dialogo con quella viva di Giocondo Pillonetto, che prendeva il sopravvento, con la spavalderia giovanile di un “ragazzo con la pistola”, di un “barone rampante” in equilibrio tra i traumi della grande guerra e le esaltazioni e delusioni del ventennio fascista: umori e passioni che, quasi ogni giorno, il giovane Pillonetto aveva annotato, febbrilmente. Poi le peripezie scolastiche (tra Modena, Treviso e Venezia), il servizio militare in Umbria (e il conseguente pacifismo), la scoperta dell’amore, tra aure stilnoviste e un eros naturale, e traumi esistenziali e glorie quotidiane, tutto registrato a penna, come a voler fare della propria vita provinciale un’opera d’arte senza tempo. E intanto cominciava a “germogliare” la poesia, e il giovane autore, consapevole di questo evolvere, lo ricostruiva ripercorrendo i moti che lo avevano condotto dall’ingenuo rapporto giovanile con la natura al bisogno viscerale di far poesia: «Ero abituato a guardare solo il presente: ora cominciavo a guardare al passato e all’avvenire. Prima mi sentivo parte della natura, ora cominciavo sentirmi “individuo”. Ricordo perfettamente certi stati d’animo d’allora. A 10 anni, adunque, avvenne la mia concezione artistica. A dieci anni cominciò a germogliare il seme dell’arte. A dieci anni il primo germoglio» (dal diario del 23 ottobre 1931).
Il temperamento dannunziano delle origini si smorza alla fine degli anni Trenta, forse per il dramma della seconda guerra mondiale: dopo un’esperienza – breve e intensissima – come sindaco di Sernaglia nell’immediato dopoguerra, è il momento di rendersi autonomo, di preservare le proprie energie vitali, fino ad allora tutte tese alla scrittura diaristica e poetica, per impostare la vita futura. Una lunga ricerca della propria strada lo porterà, non senza ostacoli, a riconvertire a osteria un locale della casa paterna: quel luogo magico che, dagli anni Cinquanta, avrebbe gestito assieme a Delfina, l’amore di una vita. Ed è lì che, trascrivendo su oltre cento taccuini le intuizioni còlte durante il proprio totalizzante mestiere di oste, nasce la leggenda del “poeta segreto”, corroborata dall’amicizia e frequentazione con Andrea Zanzotto, più giovane amico che viveva nella vicina Pieve di Soligo, e altri artisti e intellettuali altoveneti. È proprio Zanzotto a ricordare, nell’Introduzione alla raccolta Penultima fiaba: «Era senza dubbio un uomo ricco di fantasia, colto, civile (…) e la sua esistenza era trascorsa, in apparenza, nel servire con distacco e insieme con amicizia gli avventori del suo bar. (…) Personalmente gli devo, tra l’altro, delle lunghissime, accidentate, entusiastiche conversazioni letterarie, che egli avviava con me come da fratello maggiore, se non da maestro (…). L’idea estrema dell’atto poetico che Pillonetto ebbe riesce (…) a conciliarsi, per lui, con i valori di una quotidianità gremita di fatti umani, di microeventi, di sentenze appena abbozzate, in cui appare l’immagine della storia di un determinato periodo e insieme una storia ciclica che sfuma nei ritmi naturali».
Oggi, da circa un anno, l’osteria da Pillonetto è chiusa per cessata attività, ma al suo interno gli spazi sono custoditi intatti, come lo spirito di quell’autore eclettico con la propria scrittura in continuo divenire, mai contenta di sé stessa e, per questo, postuma. Restano la Penultima fiaba che parenti, amici e studiosi hanno ricomposto intuendo le ultime volontà pillonettiane e, dopo le inclemenze della pandemia che ne ha ritardato la diffusione, una biografia (che, in molte pagine, è autobiografia) dentro la quale Pillonetto ci ha insegnato ─ e da qui il titolo del libro scritto a quattro mani con Giuliano Galletti ─ come Germoglia il silenzio.
Immortalità
Nubi nere orlate di fuoco,
è il mio cielo
follia di ricordi.
Germoglia il silenzio
su le rupi selvaggie
dei miei gridi fanciulli
tristi cagne impietrite.
Così dovea essere!
Non a regni beati
la mia anima è tornata.
Il dolore soltanto
vegliò il mio ultimo respiro.
E fu il primo respiro
in dissimili membra
ma in intatta memoria.
È ormai la mia anima
nei silenzi siderei,
l’alveo del mare.
(Giocondo Pillonetto, 1938, da Penultima fiaba)
Nota
Le citazioni e le illustrazioni (a eccezione di quella della presentazione 2021) sono tutte tratte dai seguenti volumi:
– Giocondo Pillonetto, Penultima fiaba. Poesie, introduzioni di Andrea Zanzotto e Gianfranco Bettin, Treviso, Canova Edizioni, 2002
– Giuliano Galletti, Paolo Steffan, Germoglia il silenzio. Vita di Giocondo Pillonetto, Vittorio Veneto, De Bastiani, 2020.
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Paolo Steffan è nato nel 1988. In poesia ha pubblicato le raccolte In deserto (Arcipelago Itaca, 2018) e Frantumi (Quattordicesimo quaderno di poesia italiana, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2019). Ha inoltre lavorato a una trilogia sulla poesia contemporanea, con monografie su Andrea Zanzotto (2012), Luciano Cecchinel (2016) e Edith Bruck (in corso di pubblicazione). Con Giuliano Galletti ha curato i volumi Sebastiano Barozzi e la sua Cronaca del popolo (2016) e Germoglia il silenzio. Vita di Giocondo Pillonetto (2020). Nel 2019 ha vinto il premio italo-russo Raduga per la narrativa breve.
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