«Il fascino discreto dell’umanità».
Intervista a Chiara Casarin, direttrice dei Musei Civici di Bassano del Grappa
di Anna Trevisan
In un periodo storico come quello odierno, così litigioso e conflittuale, Chiara Casarin ha scelto di prendere la parola «accoglienza» molto sul serio, facendone una cifra distintiva del suo operato e della sua gestione. All’indomani del suo insediamento, infatti, la neo-direttrice dei Musei Civici di Bassano del Grappa ha inserito la gratuità di accesso per tutti i residenti e ha iniziato a dare udienza, letteralmente, a tutti: politici, professionisti del settore, gente comune. «Volevo sentire che cosa avevano da dire le persone» – racconta – «per poter unire dei punti e trovare delle isotopie. Ogni giorno, qui fuori dall’ufficio, c’era la fila».
Quella di Chiara Casarin si offre come una visione dinamica, aperta e permeabile alle sollecitazioni esterne, perché esemplarmente allenata all’ascolto. «Vedere per me – dice – significa stare attenti a quello che succede intorno e prenderne consapevolezza, in continuazione. Perché se ti accorgi che qualcosa non funziona è una fortuna incredibile: puoi aggiustare il tiro!».
Il suo è un sogno ambizioso: trasformare i Musei Civici di Bassano in un piccolo Museo dell’Escorial. Qualcosa in comune, in effetti, questi due Musei già ce l’hanno: un trenino che li collega a due grandi centri urbani e culturali: Venezia e Madrid. «L’obiettivo è che i Musei di Bassano diventino un luogo culturalmente interessante, un punto di riferimento anche territoriale per la ricerca e lo sviluppo, per la sperimentazione» – dice con convinzione lucida eppure appassionata.
Il Chiostro di San Francesco, passaggio obbligato per accedere alle sale della Pinacoteca del Museo Civico, è diventato il fulcro simbolico e non solo di questa visione sperimentale, che contamina classico e contemporaneo, collezioni permanenti e installazioni temporanee, passato e presente. «Finora il Chiostro era uno spazio-deposito, con la scultura di Benetton, la scultura di Andolfatto e il lapidario. Ma non era mai stato trattato come vero e proprio spazio espositivo all’aperto». Così la direttrice lo ha trasformato in spazio espositivo, dedicato all’installazione di opere d’arte contemporanea. La prima delle opere ad essere ospitata è stata Ex-voto, di Antonio Riello: un colorato razzo conficcato a testa in giù nel terreno. Chiara Casarin racconta divertita la genesi del progetto: «Antonio mi aveva proposto un’installazione di bambole gonfiabili tradizionali in gesso, in omaggio ai gessi di Canova, al loro biancore… Ma ero arrivata qui solo da due mesi. Per quanto mi piacesse l’idea… ho guardato Antonio negli occhi e gli ho detto: «Non me la sento». E poi, c’era un problema tecnico non da poco da affrontare: quello del gesso sotto la pioggia. Allora Antonio mi ha proposto Ex-voto. Quando ho visto quel razzo, mi ci sono vista io, catapultata qui. Da un punto di vista rappresentativo e semi-simbolico, se ci pensi, sono arrivata qui facendo crollare le certezze di quegli storici che ormai «vivevano» qui dentro con i loro Jacopo da Ponte e Canova, con i loro convegni. Quelle certezze le abbiamo fatte precipitare. Sul razzo di Antonio ci sono rappresentati frammenti di mattoni, di chiese crollate, Santi precipitati dal cielo. Quest’opera l’ho vista un po’ come un autoritratto. Mi è piaciuta moltissimo e l’ho scelta. Tra l’altro, ci sono anche frammenti dei Cieli di Tiepolo, di cui noi qui in Pinacoteca abbiamo un bozzetto.
Fin da subito Chiara ha dimostrato un interesse dialettico, forte e duplice, rivolto sia al territorio locale, sia a quello che succede «fuori le mura». Ha riscoperto e ripensato luoghi dimenticati, come quello di Torre delle Grazie, del quale si è innamorata e che ha voluto come sede espositiva da dedicare ai giovani e agli emergenti, non solo tra gli artisti ma anche tra i curatori, «per trasformarlo in un luogo di ricerca e di fermento». Come curatrice ha firmato la mostra Ritratti e autoritratti, dedicata agli Illustri Bassanesi, che ha coinvolto in maniera giocosa anche il pubblico, chiamato, attraverso i giornali, a collaborare alla scoperta delle anonime identità di alcuni ritratti. Il 16 settembre ha tenuto a battesimo Robert Capa Retrospective, mostra fotografica di respiro decisamente internazionale della quale è anche co-curatrice, inisieme a Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci di Venezia.
Abbiamo conversato con le tante anime di Chiara Casarin – storica del’arte, ricercatrice, curatrice, direttrice – anche e soprattutto a proposito della mostra Robert Capa Retrospective, prendendo le mosse dal suo corposo libro L’autenticità dell’arte contemporanea (2015), che ha fatto nuova luce sui concetti di autenticità, falso e copia nella storia dell’arte.
Che cosa significa «autenticità» per gli artisti oggi?
Il punto al quale sono arrivata è che, all’unanimità, agli artisti contemporanei non interessa. Non c’è quasi più la relazione tra autore e opera nel contemporaneo (chiaramente con le debite eccezioni). Pensa, ad esempio, ad artisti come Joseph Kosuth, che fa installazioni di luce. Lui, con una telefonata, chiede a qualcuno di sostituire un neon… Pensa a Giovanni Anselmo, che ha fatto la scultura con l’insalata [Scultura che mangia, in granito, lattuga e filo di rame, 1968, N.d.R.]. Dopo un po’, l’insalata deperisce e va sostituita… L’autenticità, oggi, non interessa nemmeno ai collezionisti e ai Musei. L’autenticità interessa solo al mercato. La prova del nove di quanto dico la offrono i cosiddetti multipli: quando sul mercato c’è un dipinto, c’è un costo, ma quando c’è un’incisione con una tiratura di 50 copie, allora il costo è un altro. Il concetto di autenticità, per le leggi di mercato è molto importante. Ma se lo guardiamo attraverso la relazione tra autore e opera, relazione che noi riteniamo fondamentale, scopriamo che non è così.
A proposito della fotografia, la tua riflessione sul concetto di «autenticità» e di «copia» come si innesta?
Per rispondere devo entrare nel tecnico. Ci sono dei linguaggi artistici o espressivi che sono dotati di un sistema notazionale. Altri linguaggi, invece, non ce l’hanno. L’architettura ha un sistema notazionale, rappresentato dai progetti. La scultura in bronzo, ha un sistema notazionale: è la cassa nella quale viene realizzata la fusione. La musica ha un sistema notazionale: gli spartiti e le partiture. Tutte le volte che un interprete esegue un concerto per pianoforte di Schumann sta realizzando l’originale. Tant’è vero che si dice: «Vado a sentire un concerto di Schumann» e non: « Vado a sentire una copia del concerto di Schumann». Lo stesso vale in architettura: un progetto di Frank Gehry resta sempre di Frank Gehry, indipendentemente dal luogo di realizzazione. La pittura, invece, non ha un sistema notazionale, perché non c’è nessun alfabeto in grado di fornire sufficienti informazioni per poter fare un altro originale. Nel caso di un dipinto non ci sarà mai una sequenza di informazioni talmente precisa da dirmi che sto realizzando un altro originale. In fotografia esiste un sistema notazionale: sono i negativi. Il mercato prevede una tiratura minima e una tiratura massima. Ma a noi interessano l’aspetto estetico e filosofico.
E le fotografie di Robert Capa?
Le fotografie che sono in mostra sono tutte tratte direttamente da negativi originali. Quindi, diciamo che, se Capa avesse potuto stampare oggi queste fotografie, le avrebbe stampate proprio così, perché avrebbe utilizzato i negativi. C’è un valore aggiunto, perché quelle in mostra non sono stampe qualsiasi, sono tutte Gelatin Silver Print.
Mi vengono però in mente due cose: la famosa foto del miliziano – per la quale Robert Capa è stato accusato di propaganda, di aver contraffatto intenzionalmente la scena – e poi la figura di Gerda Taro, che qualcuno ha insinuato fosse l’autrice di alcuni scatti…
Sai, di solito intorno alle figure di ogni tempo si costruiscono delle storie, perché diventano dei miti. Mi sono documentata molto al proposito e mi sono fatta delle opinioni, che però restano personali. La fotografia del miliziano è talmente importante, storicamente, che «deve» generare discussione. Ad ogni modo, il falso in fotografia riguarda l’attribuzione ad un autore. La falsificazione invece si innesta nel contenuto della fotografia, nel racconto della fotografia, non nella fotografia stessa. Il fatto che una fotografia possa essere un «falso» va inteso nel senso di «falso evento», non di «falsa foto». Riguarda, cioè, la rappresentazione di qualcosa che non è accaduto. Trovo però difficile credere che un miliziano, che combatteva per degli ideali molto forti e che era disposto a rischiare la vita, fosse disposto a far finta di aver perso.
Qualunque sia la verità sulla genesi di questa fotografia, c’è una frase di Ferdinando Scianna che forse è illuminante: «Le fotografie non rimangono uguali a se stesse nel tempo ma cambiano di segno etico».
Certo.
La prefazione al tuo libro l’ha scritta Adam Lowe, fondatore della Factum Arte, la più importante azienda e fondazione di mediazione digitale di opere d’arte, con la quale stai cercando di avviare una collaborazione con i Musei Civici di Bassano.
Sì. Adam Lowe è riuscito a trovare un sistema notazionale anche per la pittura.
Come ci è riuscito?
Grazie a una strumentazione tecnologica elevatissima. Non è semplice raccolta di informazioni attraverso uno scanner, non è semplice studio delle tonalità di colore. Mi spiego: per riprodurre le Nozze di Cana del Veronese, esempio che riporto anche nel mio libro, nel laboratorio di Factum Arte hanno ritessuto la tela con le stesse fibre utilizzate dal Veronese, adoperando telai molto simili a quelli del tempo. Hanno preparato la tela con una ricetta del Veronese e hanno usato pigmenti del ‘500. Tra l’altro, in questo caso, la cosa straordinaria è che l’opera è stata ricollocata esattamente dove il Veronese voleva che fosse.
Nel Cenacolo palladiano dell’Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia.
Sì, perché il Veronese, nel dipingere le Nozze di Cana, aveva tenuto conto di quegli spazi, di quella luce che entrava dalle finestre, di quell’altezza dal suolo, dell’assenza di cornice…
Qualcuno ha detto che dopo quest’operazione il Louvre –dove è tutt’ora esposta l’opera originale – ha subito un furto.
Sì, Bruno Latour. Lui è stata la benedizione teorica, sociale, storica del lavoro di Factum Arte.
Secondo Adam Lowe la parola «copia» ha sempre avuto un significato positivo: è stato Walter Benjamin -con il suo famoso saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) – a metterla in cattiva luce…
Factum Arte, però, questi lavori non li chiama «copie», perché le copie prevedono sempre un po’ di interpretazione e di intervento umano. Li chiama «facsimili», perché hanno appunto tutte le caratteristiche dell’originale.
Qual è quindi la differenza tra falso e facsimile: l’intenzione?
«Falso» in arte non significa nulla. Pensa che il Vasari definiva «falso» un restauro fatto male. Questo per dire che il concetto di falso in storia dell’arte è molto ampio. Esiste la contraffazione, che nasce con l’intento di imbrogliare, per uno scopo di mercato. La falsificazione è quella serie di azioni che servono per produrre un oggetto contraffatto, per venderlo. La contraffazione ha l’intenzione di ingannare, per vendere. Poi ci sono le copie, che sono nate come omaggi all’originale, che hanno sempre un margine molto ampio di interpretazione, più o meno fedele.
Qual è il valore storico e artistico di un facsimile?
Non è solo quello di preservare l’antico. Se pensi, ad esempio, a quanto Factum Arte sta facendo con le tombe di Seti I e di Tutankhamon: sono lavori di scoperta incredibili. Pensa alla riproduzione dei due Caravaggio, eseguite su commissione. Grazie alle loro strumentazioni, sono riusciti a capire come Caravaggio realizzava le velature. Tutti hanno sempre elogiato la luce del Caravaggio ma nessuno fino ad oggi aveva mai capito come faceva a dipingerla. Loro hanno svelato il mistero. Questo è un contributo importantissimo per la storia dell’arte. Nello stesso tempo, realizzare un facsimile permette di ricostruire ad esempio sculture danneggiate. Noi qui ai Musei Civici abbiamo dei reperti in gesso di Canova colpiti dai bombardamenti del 1945 che andrebbero restaurati.
Reperti di Canova che sono stati recentemente esposti, proprio grazie a te, nella mostra intitolata La Musa mutilata.
Sì, era in occasione della Giornata ICOM, la giornata internazionale dei musei. Abbiamo voluto far vedere che cosa «non possiamo» esporre, perché abitualmente non si mostrano le cose «rovinate, brutte». Ed è piaciuta! È stato un po’ come svelare dei segreti.
Hai questo gusto per il nascosto. Ho letto che hai in cantiere una mostra – Abscondita – nella quale inviterai il pubblico a sbirciare dietro alle tele …
Purtroppo, però, è un progetto che abbiamo dovuto posticipare perché abbiamo dovuto dare in prestito alcune delle opere che servono per la mostra. Quando ci verranno restituite, faremo la mostra.
Robert Capa ha fotografato il D Day ma non ha fotografato i campi di concentramento nazisti. Pare che quando glielo chiesero lui rispose: «Ogni nuova immagine di quell’orrore non può che indebolire l’impatto che su quelle coscienze hanno avuto le prime immagini». Scopriamo forse che Robert Capa era d’accordo con Walter Benjamin sul concetto di «copia», o meglio sul concetto di «riproducibilità»?
È acrobatico ma mi piace. È un’attitudine diversa. Per Robert Capa l’hic et nunc di cui parla Benjamin è il campo di battaglia: non è la presenza di un’ «immagine» ma la presenza in un luogo. Tra l’altro, per quanto riguarda la non esistenza di fotografie del campo di concentramento, bisogna vedere se è vero che non esistono. Ma questa è un’altra questione… A Capa non interessava fotografarli, perché non c’era azione in corso. A Capa non interessava, perché lui aveva profondo rispetto per l’umanità, per la quotidianità e per le cose belle che comunque ci sono, anche durante la guerra. Il motivo per cui ho scelto Capa e non altri sta tutto qui. È vero che ricorre il 70° anniversario della Magnum Photos, è vero che lui è uno dei fondatori, è vero che lui è un nome che attrae. È vero che con la ricorrenza del centenario della Grande Guerra del ’15-18 stiamo riflettendo sul tema dei conflitti. Ma Capa è stato scelto perché oggi il fotogiornalismo è stato ridotto a scoop: propone immagini gratuitamente violente, immagini che non mostrerei mai a mia figlia, perché sono inutili. Eppure, è possibile raccontare la gravità di un evento bellico anche senza mostrare immagini di persone squartate o di bambini che piangono disperati. C’è una visione in Capa che è quella del rispetto, non solo per chi viene fotografato, anche se si trova in mezzo al pericolo, ma anche per chi guarda quelle fotografie.
È sempre rimasto attento a non oltrepassare la soglia.
Sì, lui non è mai andato oltre. Ha sempre fotografato con la consapevolezza dell’impatto delle immagini su di noi. Non è mai stato violento, non è mai stato volgare. Volevo che questa fosse, in un certo senso, una lezione per i fotoreporter di oggi, che propongono delle immagini inguardabili. Lui è riuscito a raccontare tutte le guerre più importanti del ‘900 con un rispetto insuperato. Subito prima di morire per una mina antiuomo, in Indocina, scattò la fotografia di un bambino morto, disteso per terra, tra due soldati che lo guardano. E quella è l’unica eccezione di una regola. In mostra ci sono foto di donne che ballano, di bambini che giocano, di coppie che si baciano. Sono tutte foto scattate in periodi di guerra ma che ritraggono il lato positivo della vita. Ecco perché era assolutamente inutile fotografare i campi di concentramento: non stava succedendo nulla lì, perché quello era l’esito di qualcosa che era già avvenuto e che, soprattutto, non avrebbe potuto comunicare in modo rispettoso.
Forse voleva proteggerci da quel «decadimento della visione» al quale assistiamo invece oggi. Questo decadimento secondo te ha intaccato anche la produzione artistica contemporanea?
No. Credo che l’arte sia l’unica forma libera di espressione, che non necessita di traduzioni, che è al di sopra di logiche politiche, che è al di sopra delle differenze culturali. Credo che, anzi, l’arte si sia liberata profondamente dalla necessità di essere una cosa bella per pochi, e che, contrariamente a quanto si dice, l’arte contemporanea è rivolta a tutti. Certo, è più difficile, perché bisogna predisporsi a capirla, a convincerla o a lasciarsi fare delle domande, anche senza ricevere delle risposte. Guarda caso, fino all’inizio del ‘900 le risposte erano di tipo storico. Come se avere la nozione di una data di nascita o di un nome fossero sufficienti a farci sentire bene di fronte ad un quadro che continui a non capire. Credo che l’arte contemporanea sia l’evoluzione più intelligente dell’Uomo, in generale. Ecco perché, anche se sono di formazione storica, mi occupo di arte contemporanea: perché è libera.
A chiosa di questa chiacchierata, qual è l’opera esposta nelle collezioni permanenti dei Musei Civici che ami di più?
I monocromi di Canova: ogni volta che ci passo davanti, mi fermo a guardarli. Canova era un artista insuperato nei disegni, negli schizzi e nei monocromi. Nelle sculture e nei gessi era un bravo esecutore. Nei monocromi vedi la velocità del gesto, l’attenzione all’espressione del viso, l’accenno a un difetto della posizione di un piede, di un panneggio… Sono stupendi, perché racchiudono la capacità tecnica di una persona molto dotata in termini di competenza grafica e rappresentativa ma, nello stesso tempo, vedi l’uomo, vedi lui: Canova. Quando traspare qualcosa dell’artista nelle opere è molto più interessante. Pensa a Tiziano: perché tutti adorano l’ultimo periodo? Perché è quello in cui traspare che lui era cieco, che non ci vedeva più, che dipingeva con la memoria del corpo. Le cose «perfette» sono meno interessanti. In Jacopo da Ponte è lo stesso: le prime opere sono «perfette». Certo, sono monumenti della storia dell’arte, senza i quali probabilmente non ci sarebbero molte delle opere d’arte di oggi. Ma le ultime opere di Jacopo da Ponte… quelle sono bellissime, perché lì, lì vedi l’uomo.
Anna Trevisan
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Anna Trevisan è blogger, giornalista pubblicista e mediatrice interculturale. Si è laureata in filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha conseguito un Master in Comunicazione a Il Sole 24 Ore e un Master in Studi Interculturali all’Università degli Studi di Padova. Ha studiato anche a Berlino e a Londra. Per diversi anni ha collaborato con la Biennale di Venezia, nei settori D.M.T. (Danza, Musica, Teatro), Arte e Architettura. Ha insegnato italiano L2 ai bambini e agli adulti immigrati in Italia e ha lavorato come operatrice di sportello dell’Ufficio Immigrati. Ha svolto e svolge attività editoriale.
Scrive da più di dieci anni per il mensile “Venezia News”. È redattrice della rivista “Finnegans”. Collabora con il blog “Cult Tv Live Reviews”. Scrive per il suo blog “Multiculti” e per “ABCDance”, blog di danza del quale è co-fondatrice e redattrice. Per il progetto europeo “Migrant Bodies” di Operaestate Festival ha pubblicato un omonimo report e ha scritto due brevi testi teatrali, rappresentati nella tappa italiana dello spettacolo “Ethnoscape” (2015) di Cécile Proust. Per Tracciati Editore ha pubblicato i racconti brevi: “In viaggio verso dove”, nella raccolta “Tre d’amore” (2014) e “La bicicletta”, nella raccolta “Dammi Cinque” (2017).
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