Italia, colore, 122 min
- Regia: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
- Soggetto e sceneggiatura: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
- Fotografia: Luca Bigazzi
- Costumi: Andrea Cavalletto
- Musica: Colapesce
- Interpreti principali: Elio Germano, Toni Servillo, Daniela Marra, Betty Pedrazzi, Barbora Bobul’ova, Giuseppe Tantillo.
Il sottotitolo di Iddu (il nuovo lungometraggio scritto e diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, dopo Sicilian Ghost Story, 2017, Salvo, 2013, e il corto Rita, 2010) è “L’ultimo padrino”. Ma di Francis Ford Coppola non c’è traccia, perché Matteo (il cognome Messina Denaro, quantunque mai pronunciato, è tutt’altro che sottinteso) di padrino non ha nulla. Figlio “prescelto” di un padre che esercita su di lui un ascendente fortissimo e manipolatorio, Matteo (Elio Germano), pur essendo a sua volta padre, rifiuta la propria genitorialità così come, in una dinamica mafiosa, una possibile discendenza: è in questo senso che si presenta come “ultimo”. Il rapporto con il padre è giocato sulla doppia frequenza dell’accondiscendenza e del rifiuto; morto il genitore, permane lo spettro con cui dialogare: “sei morto in mezzo alle pecore e io sto vivendo come un sorcio”.
Isolato nella latitanza, Matteo accumula letture, cita l’Ecclesiaste, gioca ai videogame, si interroga sul senso della vita, divide il mondo in buoni e cattivi, si racconta i doveri e la giustizia umana alla rovescia. Il personaggio – modulato da Germano con recitazione efficace e prosodia attenta del dialetto siciliano nella variante trapanese, mai forzato o caricaturale – è un narcisista cronico, uno stravagante da commedia grottesca (quando, per esempio, si accorge che manca un tassello del puzzle, che in un gioco di specchi raffigura l’isola, reagisce scrivendo una lettera direttamente alla ditta tedesca che li produce, commentando che «non ci si può fidare neppure dei tedeschi»), ma allo stesso tempo è un personaggio comune. È questa la nota straniante che ha fatto alzare le sopracciglia ai più. Non siamo davanti al criminale «transnazionale che emerge dalla jacuzzi tra arredi hi-tech» (come scrive Emiliano Morreale su Snaporaz), distante da noi ma con il quale infine si rischia di simpatizzare, non c’è spazio per rappresentazioni mitiche e toni eroici, Matteo rimane innanzitutto un personaggio ridicolo. Il film rifiuta la narrazione rassicurante in cui la distinzione tra buoni e cattivi è netta e inequivocabile: le cose sono più complicate e torbide, tra gli uni e gli altri ci sono figure ambigue e camaleontiche. Tra queste Catello Palumbo (Toni Servillo), ex preside, ex sindaco, ex costruttore, uno che non è più niente, «solo un ex», sentenzia la moglie Elvira (Betty Pedrazzi). Da lui, o meglio attraverso lui, è messa in moto la vicenda, al cui centro sta lo scambio di “pizzini”, con i quali il boss comunica con i familiari e gestisce gli affari, e per i quali è previsto un reticolo ben congegnato di scambio e smistamento. I servizi segreti pedinano Catello e lo costringono a intrattenere rapporti epistolari con il figlioccio (Matteo appunto), attraverso i quali avvicinarsi progressivamente al latitante. In questa dinamica Palumbo rimane incastrato, ma come tutti i saltimbanchi, tenta di arraffare la sua parte (l’affare di un albergo, con cui vuole garantire alla sua famiglia degli introiti): impone dei patti e introduce nel gioco le sue regole, fatte di scambi e compromessi. È qui che si inceppa la macchina dello Stato: quando tenta di reiterare quelle stesse dinamiche e promette a Catello la realizzazione dell’albergo. All’interno di questa “zona grigia”, sono chiamati ad agire Catello Palumbo (che scopriamo essere figlio di un carabiniere, un prodotto dunque dei gangli malati dello Stato) e l’ispettrice Rita Mancuso (Daniela Marra), l’unica che sembra davvero interessata ad arrestare il latitante, a fronte di un apparato di polizia in cui non mancano le connivenze. Tra i due si svolge uno dei dialoghi più significativi del film:
Catello: “ti posso fare una domanda? Ma perché tutta questa ostilità nei miei confronti?
Rita Mancuso: “a me interessa solo di catturarlo, di te non mi interessa niente”
[…]
Catello: “io non ho mai avuto problemi con i miei nemici, sono i miei amici che non mi hanno fatto dormire la notte, ho fatto qualche favore di troppo”.
Rita Mancuso: “è quello che ti racconti ogni mattina davanti allo specchio, ah? Ti faccio io una domanda: per te quali valori contano nella vita?”
Catello: “Rita, gli ideali e i valori umani hanno un carattere illusorio, compensativo, questo evidentemente in accademia non te l’hanno potuto dire, ma il tempo e l’esperienza non te l’hanno insegnato?”.
Alla figura dell’ispettrice è affidata la rappresentazione di quel pezzo di Stato sano e cosciente dei propri doveri, ma fin da subito ci è presentata come una vinta: non gode dell’approvazione e dell’ascolto dei colleghi uomini, tenta un’azione disperata e in solitaria davvero impossibile e maldestra. Quando sceglierà di proseguire le indagini da sola, dovrà contare innanzitutto su Catello, portarlo sulla strada indicata da lei, renderlo a parte delle sue decisioni, ma sarà un equilibrio malfermo, i due personaggi si fronteggeranno fino a mescolarsi: come effettivamente succede in un’improbabile scena in casa dell’ispettrice che, adagiata su un divano dopo aver bevuto qualche bottiglia di birra, sorseggia un caffè preparato da Catello; o ancora quando quest’ultimo le fa notare soddisfatto, e quasi contento, che finalmente lei è passata a dargli del tu. Mancuso, senza alcun appoggio alle spalle, fallisce e, come succede quando si vuol fare terra bruciata a chi fa sul serio, viene trasferita. A rischiare davvero sono i “pesci piccoli”, come Pino Tumino (Giuseppe Tantillo), genero di Catello, “un ragazzo semplice”.
Il film è stato preparato prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro (avvenuto il 16 gennaio del 2023) e si colloca in continuità con i precedenti, nei quali si raccontava di una resa dei conti tra boss (in Salvo) e dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo (in Sicilian Ghost Story). La realtà – come il film chiarisce fin da subito – è «un punto di partenza, non la destinazione». Come ha affermato Servillo alla presentazione del film, l’intento è quello di «far risuonare nella testa dello spettatore una domanda molto semplice: come è stato possibile?». Per farlo, i due registi non hanno scelto la fedeltà documentaria a fatti e persone (tutti i nomi, ad esempio, sono stati cambiati, tranne quello di Matteo), non siamo insomma di fronte a un biopic sul criminale più famoso dei nostri giorni (al contrario, strettamente biografico è il nuovo film di Andrea Segre, Berlinguer. La grande ambizione, nelle sale dal 31 ottobre, nel cui personaggio è stato chiamato a entrare Elio Germano, subito dopo esser uscito dal set di Iddu), ma i fatti sono modellati in modo fantasmatico (come succedeva soprattutto in Sicilian Ghost Story), anche attraverso una luce e una fotografia (qui quella di Luca Bigazzi) dai toni chiari e onirici.
Quando sul terrazzo interno dell’appartamento della signora Lucia Russo (Barbora Bobul’ova), che nasconde il latitante, il vicino “vuole aprirsi una finestra abusiva”, Matteo commenta che questa volta non può essere lui a “risolvergli il problema”. Siamo nel regno del paradosso, in cui il grottesco fa da padrone e suggerisce al vicino di casa – a sua insaputa – di Matteo Messina Denaro la battuta forse più umoristica e straniante del film. Quando la signora Russo minaccia di chiamare i vigili urbani, il vicino le risponde: “perché lei tutte cose in regola c’ha?”.
Infine, riportiamo il dialogo tra Matteo e un senatore a una festa palermitana, in cui – appartati in una saletta del palazzo – discutono dei finanziamenti pubblici per “porti e parchi eolici” (Totò Riina dal carcere aveva definito Matteo Messina Denaro “quello dei pali”), sulle cui somme hanno entrambi, in accordo, allungato le mani.
Matteo: “dieci generazioni passarono da Adamo a noi, e degenerarono, dieci generazioni passarono da noi a Abramo, e degenerarono […] come vede, degenerare è il nostro destino”.
Senatore: “vale anche per te?”
Matteo: “Vale anche per lei, senatore, vale per tutti”.
Senatore: “quello che è stato sarà, quello che si è fatto si rifarà, niente di nuovo sotto il sole, passato presente futuro, un cancia nenti”.
Un botta e risposta che sembra preso in prestito direttamente da Il Gattopardo, con un senatore Chevalley che ha finalmente imparato la lezione.
Immagine di copertina: Elio Germano in “Iddu”