C’è un verso di una canzone di Nick Cave, Cannibal’s Hymn, che fa: “But if you’re gonna dine with them cannibals, / sooner or later, darling, you’re gonna get eaten”. Significa, più o meno, che se vai a cena con i cannibali, prima o poi verrai mangiato. Ascoltandola a distanza di tempo (è tratta dal doppio Abattoir blues, del 2004) suona (è il caso di dirlo) come una di quelle profezie che si autoavverano, neanche fossimo dalle parti del mito greco: a partire dal 2015, la vita di Nick Cave è stata attraversata da diverse tragedie, la più devastante, la morte del figlio Arthur, di soli quindici anni, precipitato dalle scogliere di Brighton mentre era sotto l’effetto di una dose di LSD. A questa, si sono aggiunte la morte di un secondo figlio, Jethro (che viveva lontano, in Australia, estraneo alla vita di Cave, ma non per questo la sua morte è stata meno dolorosa), di Anita Lane, amica carissima (era stata anche la sua ragazza), della madre, e di altri amici (ricordiamo almeno il musicista Mark Lanegan).
Nick Cave (nato nel 1957 in Australia) ha sempre avuto una certa dimestichezza con i “cannibali”: i testi delle sue canzoni e dei suoi libri sono abitati da disperati, assassini, ossessi, pazzi: insomma, un florilegio di fiori del male, un repertorio gotico degno degli incubi di Edgar Allan Poe che lo hanno iscritto a buon diritto tra gli ultimi eredi dei poeti maledetti (la graphic novel di Reinhard Kleist, Nick Cave. Mercy on me, edita da Bao nel 2018, non fa che confermare tale immagine). Sotto queste vesti, resta indimenticabile la sua apparizione nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders del 1987: un angelo dannato che canta, soffre, si agita, si contorce, (sotto lo sguardo di un altro angelo maledetto, Blixa Bargeld) sul palco di un fumoso locale del post punk berlinese, esibendosi in una interpretazione mozzafiato di From her to eternity (ogni interpretazione di From her to eternity è mozzafiato).
Però, per quanta dimestichezza avesse con i cannibali, non ha potuto evitare di finire divorato anche lui. Quello che forse non ci si aspettava era che, dopo essere stato divorato e masticato, venisse anche vomitato fuori dal loro stomaco. Siamo ancora dalle parti del mito, un po’ come la balena che risputa fuori Jona, il profeta renitente, ed è proprio la fede (passata attraverso il crogiolo del lutto) a svolgere una funzione emetica.
A testimonianza di questa nuova dimensione è uscito a settembre del 2022 un lungo libro-intervista con il giornalista Sean O’Hagan, dal titolo Fede, speranza e carneficina, per le edizioni della Nave di Teseo (414 pagg., 21,00 euro): quindici capitoli frutto di una serie di conversazioni telefoniche svolte durante il lockdown del 2020, “un tempo incerto”, come lo definisce O’Hagan, che porta Nick Cave ad affrontare svariati argomenti della sua esperienza nel mondo della musica ma anche temi più intimi e roventi come il lutto, la religione, la fede (e anche le dipendenze come l’alcool o la droga). Un libro che può apparire sconcertante per chi sia rimasto fermo all’immagine del Cave maledetto: ma King Ink (suo soprannome nonché titolo di una raccolta di poesie del 1988) è un vero artista, sicuramente uno dei più grandi e merita l’attenzione non solo dei suoi fans musicali ma di un pubblico più ampio. E se il Nobel per la letteratura a Bob Dylan ha avuto un senso (e ce l’ha avuto, eccome!), allora ha anche senso ascoltare le canzoni e leggere i libri di Cave con l’attenzione dovuta alla letteratura tout court.
Indubbiamente, l’immaginario e il linguaggio biblico hanno caratterizzato i testi di Cave fin dagli esordi, non solo musicali ma anche letterari (il suo primo romanzo si intitola E l’asina vide l’angelo, che è una citazione di un episodio della Bibbia). Ma da armamentario retorico (in senso tecnico) la religione è diventata anche sostanza e la conversazione con O’Hagan suggerisce un riconoscimento della presenza del divino nel mondo da parte di Cave. Tutto ciò ha fatto storcere il naso a qualcuno dei fans: sulle pagine del suo blog The Red Hand Files, è stato accusato di essere diventato un “hippie da cartolina”. Cave ha risposto in modo pacato, chiarendo come le cose siano cambiate dopo la morte del figlio. “Io sono cambiato. Nel bene e nel male, la rabbia di cui parli ha perso ogni fascino ai miei occhi e sì, forse sono diventato un hippie da cartolina. L’odio non m’è più sembrato tanto interessante. Mi sono liberato di quei vecchi sentimenti come uno strato di pelle di cui disfarsi. Erano a loro modo vomitevoli.” E se a suo tempo c’era della nobiltà nell’essere incasinato, incazzato col mondo, sprezzante nei confronti della gente e pensare che tale atteggiamento avesse un qualche valore, “alla fine questo comportamento m’è sembrato, come dire, stupido”. La morte del figlio lo ha costretto a fare i conti con un dolore autentico e “quella posa di disprezzo nei confronti del mondo ha cominciato a traballare per poi crollare. Ho cominciato a capire quanto precarie e vulnerabili sono le cose del mondo e ho cominciato a preoccuparmene. Improvvisamente ho sentito l’urgenza di dare come minimo una mano a questo bellissimo, terribile mondo, al posto di limitarmi a denigrarlo compiacendomi del mio giudizio”.
Ognuno dei quindici capitoli in cui è diviso il libro ci trascina, dunque, dentro i sentimenti, gli affetti, i timori e le speranze nuove dell’artista australiano: “Sebbene cercassi di ancorare ciascuna conversazione a un singolo tema – scrive O’Hagan –, spesso prendevano uno slancio vertiginoso tutto loro, con alcuni argomenti che andavano a sovrapporsi e intrecciarsi: creatività, collaborazione, valori, convinzioni, perdita, lutto, reinvenzione, tradizione, sfida, la persistenza della speranza e dell’amore al cospetto della morte e della disperazione”. Alla fine, si ha la sensazione di essere di fronte al cuore di Cave messo a nudo: la sincerità, l’onestà, la fiducia con cui affida le riflessioni al suo interlocutore (e ai lettori) per raccontare i traumi, la fede, i dubbi, ci guidano lungo un viaggio a tentoni nell’ignoto. In un libro che “racconta una drammatica metamorfosi creativa e umana di fronte all’enorme catastrofe personale”, attraversato da un senso di caducità della vita, Cave si guarda bene, però, da offrire facili soluzioni, che non esistono: l’immagine più calzante è quella di un inciampare in avanti. Ma neanche questo è esatto, ed è Cave a correggersi: “Forse quello che intendo dire è che sebbene sentiamo di muoverci in avanti, a mio parere ci muoviamo sempre in modo circolare, con al seguito tutto ciò che amiamo e ricordiamo, e portando con noi tutti i nostri bisogni e desideri e ferite, e tutti coloro che in noi si sono riversati e ci hanno reso chi siamo, e tutti i fantasmi con cui viaggiamo. È come correre verso Dio, ma quell’amore di Dio è anche il vento che ci sospinge, è impeto e destinazione, e risiede in chi è vivo come in chi è morto. Ci muoviamo attorno e attorno, incontrando le stesse cose, ancora e ancora, ma dentro questo movimento accadono eventi che ci cambiano, che ci annichiliscono, che spostano la nostra relazione con il mondo. È questo vicendevole moto circolare che si fa sempre più essenziale e presente e necessario a ogni giro”.
Ciò che ha salvato Cave dalla disperazione è l’etica del lavoro, tema squisitamente protestante, se vogliamo. Dietro la creazione artistica si nasconde un enorme impegno a cui Cave si è sempre affidato e che riveste un potere taumaturgico. “Credo che l’arte riesca in qualche modo a riconciliare l’artista con il mondo. […] La musica può essere una forma attiva di redenzione. Può essere un modo di riportare equilibrio consegnando al mondo qualcosa d’esplicitamente buono, il meglio di noi. E, ovviamente, ciò richiede la partecipazione al mondo”. Partecipare al mondo, dice Cave: e chi ha avuto la possibilità di assistere a un suo concerto, sa quanto vera possa essere questa affermazione. Sul palco Cave trova “una sorta di invincibilità dentro una lancinante vulnerabilità”. Un suo concerto è davvero un’esperienza straniante e straziante, in cui Cave interpreta il ruolo dello sciamano in grado di trascinare il pubblico in una dimensione dionisiaca: fosse vivo Pier Paolo Pasolini, non esiterebbe a riconoscere la presenza del sacro sul palco di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds. In un’epoca malamente secolarizzata, è sempre più raro poter fare un’esperienza che ci metta a contatto con una sorta di trascendenza. Il venir meno delle religioni storiche quale orizzonte di senso delle società occidentali non ha prodotto una religione umana, com’era auspicabile per una coscienza autenticamente laica, ma al contrario, una nuova forma di superstizione, una nuova idolatria, tutta legata al consumo. Ha scritto il filosofo Nicola Chiaromonte: “La religione dell’al di qua delle cose – del momento che passa – dell’oblio di sé nella distrazione continua dall’esistenza di un mondo – dal fatto della mortalità – e persino dalla gioia profonda – perché la gioia chiede ‘altro’ – rimanda a un significato splendente e nascosto. Insomma, io non sarei lontano dall’affermare che l’attuale condizione dell’uomo civilizzato è la peggiore immaginabile”.
Il senso del sacro, allora, non è altro che il senso del limite, il sentimento (e la coscienza chiara) di essere parte di un tutto che non si conosce. “Dio è il trauma stesso”, afferma Cave commentando uno dei suoi dischi più intensi, Ghosteen (2019), scritto dopo la morte la figlio Arthur: “il lutto può essere visto come una sorta di stato di sublimazione dove colui che soffre è quanto mai vicino alla fondamentale essenza delle cose”. Nel lutto, sostanzialmente, si diviene consapevoli dell’idea di mortalità. “Si finisce in un posto molto buio e si fa esperienza dei limiti del proprio dolore. […] Ne veniamo profondamente alterati o rimodellati. Ora, questo processo è terribile, ma col tempo si fa ritorno a questo mondo portando con sé una forma di conoscenza che ha a che fare con il nostro essere vulnerabili perché partecipi di questo dramma umano. Ogni cosa appare estremamente fragile e preziosa e di maggior valore, e il mondo e coloro che lo abitano sembrano così indifesi di fronte al pericolo, eppure meravigliosi. […] È veramente come se il lutto e Dio siano in qualche modo intrecciati”.
In fondo, Cave ripropone, sotto una nuova dolorosa veste, una formula cara a Arthur Rimbaud: il poeta – e Cave è poeta – deve farsi veggente e si fa veggente “attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!”.
Sì, anche noi laici, insofferenti a chierici rossi o neri, alle religioni e agli integralismi di ogni tipo e maniera, alle prospettive escatologiche o salvifiche, dobbiamo essere grati al Re Inchiostro perché ci sferza, ci provoca, ci stimola a reagire e a confrontarci col dolore, col lutto, col male, col bene, con dio e il nulla.
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Immagine di copertina
Nick Cave, Live in Coachella (California), 14 aprile 2013. Foto di Ian T. McFarland per Wikimedia Commons
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