di Nicola De Cilia
Diversi anni fa, uno dei critici più acuti che le nostre patrie lettere contino, Goffredo Fofi, ebbe a scrivere che Giovanni Comisso è uno dei nostri maggiori scrittori e se ci si ostina a non considerarlo tale è perché siamo prevenuti verso… la felicità (Strade maestre, Donzelli, 1996). Una scrittura, quella di Comisso, caratterizzata da sensualità, immediatezza, fuggevolezza, luce, stupore di tutto, godimento pieno del presente in una totale libertà di sguardo. Ora che i diritti sono in mano a La Nave di Teseo, una delle nostre corazzate editoriali, ci si deve augurare che il nome e i libri dello scrittore trevigiano non siano più condannati alla damnatio memoriae. A novembre 2023, la casa editrice fondata da Umberto Eco e guidata da Elisabetta Sgarbi, ha ripubblicato Cribol, ultimo romanzo di Giovanni Comisso, edito nel 1964: una scelta indubbiamente coraggiosa. Basterà a riportare la giusta attenzione sul Nostro? Qualcuno sarà in grado di accorgersi che abbiamo avuto un narratore originale e potente che vale la pena di tornare a leggere?
Cribol riassume ed esalta l’atteggiamento libertario e la sensualità che hanno caratterizzato l’autore nel corso della vita e della narrativa. Il titolo deriva dal soprannome affibbiato al protagonista, ed è il risultato di una blasfema contrazione di Cristo e Diavolo, un’esclamazione che ripete ogni volta che perde a carte. Senza dubbio, Cribol è una sorta di doppio in cui Comisso ha potuto riconoscere la parte più selvaggia e oscura di sé, più libera e vicina alla dimensione “naturale”. Un romanzo ancora in grado di stupire e forse di scandalizzare, che celebra il desiderio di reinventare la vita a ogni istante, di affermare i diritti del principio di piacere in una sfida al fittizio ordine delle convenzioni.
La storia si svolge ad Avien, un paese sulle rive di un torrente, e non è difficile riconoscere le ambientazioni care a Comisso: Onigo, il Piave, le colline e le montagne della pedemontana trevigiana. Dopo la devastazione dovuta al passaggio della guerra (la seconda, in questo caso), il nuovo parroco si pone come intransigente guida per una restaurazione sociale e morale sotto l’egida di un rigido cattolicesimo. A tutto ciò si oppone Cribol, ostacolando il disegno di don Fulvio e sfidandolo apertamente con la sua vita libera ed estranea ad ogni schema. Quando la sua virilità entra in crisi, su suggerimento di un pastore, cerca una cura nel seme che può suggere dai giovani corpi che incontra sulle sponde del torrente. Spiato dal prete, verrà denunciato e dovrà affrontare un inferno giudiziario. Ma il trionfo di don Fulvio avrà breve durata e gli si rivolterà contro.
Il personaggio di Cribol, in realtà, più che al diavolo, rimanda a una divinità silvestre, a un Pan delle colline venete, un vero e proprio inno all’eros della selva. Il Paradiso terrestre di Cribol è al di là del bene e del male, il sesso è vissuto senza patemi, senza sensi di colpa, in una dimensione precristiana e premorale: un leit-motiv che attraversa in modi sempre riconoscibili l’intera produzione dell’autore trevigiano, fin dal suo sfolgorante esordio, Il porto dell’amore (1924), in cui si celebrava la sfrenata energia che aveva caratterizzato l’avventura fiumana.
Cribol, dunque, dicevamo, appartiene alla selva, a un mondo precristiano e pagano, la sua sensualità prorompe a contatto con la natura: in un momento cruciale del romanzo, mentre tutto il paese partecipa alla messa solenne di don Fulvio, Cribol si allontana e se ne va in giro per i boschi, in un consapevole gesto di sfida. Camminare tra i colli gli riporta alla memoria «tutto il selvaggio della sua vita.» È la natura stessa, con le ombre degli alberi, i raggi del sole tra le fronde e le farfalle che volano alterne, a riproporgli visioni seducenti ed ebrezze già provate nella sua giovinezza.
Quando poi, un giorno, incontra per caso una giovane zingara che vive sola nella baracca del bosco, la vita sembra toccare perfezione e felicità: «Le avrebbe portato ogni giorno da mangiare e propose di spogliarsi entrambi come nel paradiso terrestre. Questo per lui era il vero destino dell’uomo, cibarsi di frutta donata dagli alberi e dalle piante, vivere nei boschi e godere tra le loro ombre dell’amore come le volpi, come i gatti selvatici […] Egli poteva toccare, accarezzare, baciare quel corpo e soprattutto stringere quelle gambe contro al petto, come stringeva i tronchi degli alberi in quel bosco, quando invano attendeva le ragazze delle stalle.»
La zingara, l’amore all’ombra della selva: situazioni che evocano i romanzi western americani di James Fenimore Cooper o di Ernest Hemingway in cui meticce latine o squaw indiane si concedono in amplessi nei boschi, donne, come scrive il critico Leslie Fiedler, «molli, sottomesse: strumenti indolori atti a estrarre seme, senza che ne conseguano impegni umani.»
Al paradiso e all’inferno minacciati o promessi da don Fulvio, Comisso, contrappone la sola forma di immortalità in cui è possibile credere: la materia fisica, indistruttibile e al tempo stesso completamente modificabile. I nostri corpi sono parte di un ciclo interminabile di dispersione e ricomposizione. I confini tra mondi diversi, quello minerale, vegetale, animale e infine umano, sono avvertiti come labili, quasi indistinti e il non-umano sembra inglobare nella sua comune sostanza l’insieme di qualità corporee e psicologiche e umane. Ecco, ad esempio, come in Cribol, durante la sagra del paese, si manifesta la bellezza giovanile: «Tutta la gioventù maturata durante gli anni della guerra pareva volersi mettere in mostra per assicurarsi il suo diritto alla vita […] Niente li poteva eguagliare, né le immagini degli angeli, né le statue marmoree più levigate, né i fiori, né gli alberi schietti e novelli, né gli animali che vivono nelle selve, ma forse solo certi mirabili insetti, variopinti, equilibrati, iridescenti, senza scorie che si nutrono soltanto del nettare dei fiori. Erano scaturiti da quelle colline selvose di castagni modellati dal vento a settentrione, e sparse di meli rosati fitti di frutta o ricche di aurei grappoli, colati dal sole, a mezzogiorno, nell’ordinato susseguirsi dei vigneti.»
Non stupisca il riferimento agli insetti: il loro fascino deriva da una perfezione che fa tutt’uno con la brevità e intensità della loro vita: «Se dovessimo adeguarci alla loro legge si dovrebbe morire appena superata la giovinezza che rappresenta il nostro stato di perfezione», aveva annotato qualche anno prima Comisso ne La mia casa di campagna. «Il baco da seta è invero fortunato, quando si tratta di mangiare, mangia e non pensa ad altro, quando si tratta di lavorare, lavora e non è necessario mangiare, da ultimo il piacere dell’amore gli è completamente riservato senza interruzioni per il cibo o per il lavoro. Più del mangiare è il lavoro e più di questo è l’amore, il lavoro è sostenuto come un’arte sublime senza la preoccupazione di mangiare e l’amore come una frenetica danza che si esaurisce nella morte.»
Comisso attribuisce al suo personaggio lo stesso stupore e la stessa ammirazione per questa parte del mondo animale: anche Cribol avrebbe desiderato essere nato insetto perché «in un mondo più piccolo vi era maggiore possibilità di vivere felici.» Così, quando fa l’amore con la zingara o con la giovane del paese, egli assomiglia a un ragno (che non è un insetto, ma pur sempre appartiene a quel «mondo più piccolo»): «Nella penombra egli fu su di lei ancora come un ragno che si arrovella sulla farfalla invescata nella sua tela ed ella biancheggiava, sviluppandosi, ingrandendosi come un fiore che apra i suoi petali.»
A Comisso non è mai sfuggito che la Terra fosse un grande organismo vivente in cui tutto è interconnesso. Anche per questo, Cribol può essere letto come una sorta di testamento spirituale e al tempo stesso come ammonizione: la triste fine di don Fulvio è il destino di chi si ostina a voler negare la nostra stretta relazione con la biologia, la chimica, in una parola, il cosmo. Ha scritto il filosofo francese Michel Onfray, in Cosmo: «nell’uomo permane quella stessa forza che fa uscire il germe dalla terra guidandolo verso la luce del sole, una forza cieca e sorda ma potente e decisiva, contro la quale non si può fare granché, se non esserne consapevoli per poi acconsentirvi – possibilmente con la gioia dell’amor fati nietzschiano. Parente del minerale, del vegetale e dell’animale, l’uomo porta in sé, nel proprio sangue, nei propri nervi, nella propria carne e ovviamente nel proprio cervello, una parte di quella stessa energia cieca che governa il mondo. Il primo compito della cultura? Conoscere le leggi dell’etologia – l’equivalente dell’agronomia per il contadino e per il giardiniere.»
La sublime ambizione che Cribol condivide con Giovanni Comisso è «fare i selvaggi», cioè amplificare all’estremo la propria sensualità, avvicinarsi il più possibile a uno stato di ebbra stupefazione: l’immersione nel selvatico aiuta crescere, a sperimentare la vita, a lasciare libero corso a quell’eros che innerva ogni fibra del corpo e trova il suo corrispettivo nel macrocosmo della natura. Cribol ha inseguito un principio di piacere che aveva nella «sensualità dilagante» il suo orizzonte, ponendosi al di là del bene e del male. Il suo «battello ebbro» era destinato ad arenarsi nelle secche del filisteismo borghese e del moralismo cattolico. Ma è anche vero che Cribol non cozza solamente contro un limite sociale e morale: al vitalismo comissiano, infatti, non è estranea l’angoscia della dissoluzione; vivere inseguendo l’attimo fuggente ha un suo prezzo, si insinua un’ombra, una desolata inquietudine che porta a percepire la fugacità, l’impermanenza della vita stessa, verità che Comisso, nella sua vecchiaia – sorta di ruggine che corrode ogni piacere – avverte con maggior lucidità e strazio. Ma è una tensione, meglio, un’oscillazione tra amor vitae e tedium, tra eros e thanatos, che attraversa tutta la narrativa di Comisso e che trova in Cribol il suo definitivo compimento e, contemporaneamente, la sua (forse) inevitabile sconfitta.
Immagine di copertina: Origini, HG Studios
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.