Analisi ponderata o allarmismo? Questo dilemma emerge ogni volta che si discute su media e giornali dello sviluppo dell’Intelligenza Artificiale e dei cambiamenti che essa apporterà alla storia del progresso e alle sue prospettive future. Il 20 luglio 2025 a Cervia, presso il Piazzale dei Salinari, il filosofo Massimo Donà, Professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università San Raffaele di Milano, ha chiuso la ventunesima edizione della rassegna Filosofia sotto le Stelle, presentata da Alberto Donati, iniziata il 17 luglio e incentrata proprio sull’Intelligenza Artificiale.

Fra i tanti temi è di notevole rilevanza, anche se meno affrontato dalla filosofia contemporanea, il rapporto dell’IA con la musica, dato che l’evoluzione di programmi in grado di produrre suoni e canzoni come UNO e SUNO offre dei nuovi spunti, oltre che sulle capacità della macchina, sulla relazione umana con la musica e sul ruolo stesso dell’artista. Il Professor Donà due giorni prima della conferenza ha concesso un’intervista in cui ha espresso la sua disamina su questo argomento specifico non solo come filosofo, ma anche come musicista, una doppia professione emersa anche in alcune sue pubblicazioni.
SUMA Su quale aspetto l’Intelligenza Artificiale da un lato si distingue dalle altre macchine e dall’altro si avvicina all’essere umano?
«Innanzitutto sul fatto che si tratta della prima macchina che ha bisogno di essere educata. A differenza degli altri meccanismi, i quali erano progettati per ripetere gli stessi automatismi, l’IA impara, acquisisce dati e si modifica sulla base delle istruzioni che le vengono fornite nel training, esattamente come quando noi umani impariamo con l’esperienza. La capacità di apprendimento non solo non rende l’IA un automa, ma ha senza dubbio cambiato alcuni dei nostri preconcetti, visto che fino ad ora pensavamo che solo gli esseri viventi fossero in grado di imparare».
Ultimamente i nuovi modelli di IA stanno trasformando il linguaggio matematico, su cui si fondano gli algoritmi, in linguaggio naturale. Nota un’inversione di tendenza rispetto ai primi sistemi computazionali, che si basavano sul principio opposto?
«Certamente. Per secoli l’ideale della costruzione razionale ha cercato di tradurre quello che era un linguaggio più ambiguo in linguaggio logico, anche se quando dico una parola posso comunque interpretarla e pensarla in più modi. Infatti adesso il processo è cambiato, dato che il computer, nonostante si basi ancora su algoritmi matematici, riproduce non solo testi e ragionamenti, ma anche un linguaggio proposizionale più ricco. Si notano due importanti implicazioni: la prima è che il fenomeno descritto mette in difficoltà il primato della matematica, mentre la seconda è che si rischia di non distinguere più il linguaggio logico da quello naturale».

Nella lettura del suo scritto Filosofia della Musica emerge che la musica è il rapporto matematico fra le note che permette agli umani la consonanza con il mondo. Cosa differenzia l’umano dall’IA nell’apprendimento della musica?
«Nel mio libro descrivo le differenze di intenti fra Musica Classica e Jazz. La prima, credendo nel mito dello spazio e dell’eternità, ha sempre cercato non solo di raggiungere un ordine armonico basato su proporzioni, ma anche di liberare la musica dalla temporalità. La vera musica per i classici è sullo spartito, indipendentemente dalle varie esecuzioni, esattamente come le idee platoniche nell’iperuranio, che sono indipendenti dalle loro copie nel mondo reale. Il Jazz invece è differente proprio perché esalta la dimensione temporale della musica e dell’imperfezione, che rende quella musica suonata in quel concerto indimenticabile. L’IA tramite programmi come SUNO ritorna ad una musica ideale simile a quella classica, rendendo possibile una perfezione che nessun musicista è mai riuscito a raggiungere, ma non possiede né l’imprecisione appena descritta, né la maestria di Chet Backer nelle variazioni di un tema. Il rischio è che l’IA possa renderci inconsapevoli della nostra condizione, basata proprio sull’errore e sull’imperfezione».
Spesso si dice che nell’IA manchi il processo creativo nella creazione delle musiche. È d’accordo con questa idea?
«In primis dobbiamo chiederci cosa intendiamo per creatività. Nel momento in cui impariamo a leggere, a scrivere e ad acquisire conoscenze, la creatività non è una ripetizione di nozioni apprese, ma l’aggiunta di qualcosa che non è riconducibile a quello che ho ricevuto; per citare Marcel Duchamp, la creatività è una x in più inspiegabile. È per questo che si parla di ispirazione ed intuizione del genio. Questo vale anche quando sono con i miei studenti, poiché c’è chi si limita a ripetere quello che spiego e chi invece aggiunge qualcosa di suo. L’Intelligenza Artificiale, siccome si limita per ora a restituire quello che le diamo, non possiede ancora questa caratteristica».

Quali possono essere i rischi e le opportunità dell’intelligenza artificiale nell’industria musicale? Come cambierà il ruolo dell’artista?
«Tutte le innovazioni portano dei pericoli e delle paure. Quando nel 1830 venne costruita la prima linea ferroviaria Manchester-Liverpool, ci furono intense proteste, esattamente come quando vennero creati i primi computer, periodo in cui ricordo intensi dibattiti televisivi in Italia. La paura di snaturare le nostre abitudini c’è sempre stata, anche se la Natura, essendo in continuo mutamento, non corrisponde ad una μορφή ideale. Negli ultimi giorni ha fatto scalpore il caso del libro Ipnocrazia, teoricamente scritto da Jianwei Xun, ma che è stato interamente creato tramite intelligenza artificiale. Nella musica avverrà la stessa identica cosa; io stesso ho fatto creare alcune composizioni a SUNO, che però non posso definire mie, visto che mi sono limitato a fornire all’IA delle indicazioni. Probabilmente non riusciremo più a distinguere prodotti umani da quelli IA, anche se non ha senso prevedere scenari apocalittici, dato che ogni rivoluzione tecnologica sconvolge l’ordine dato».
A Cervia Massimo Donà ha integrato alle risposte dell’intervista alcune considerazioni generali sull’IA, in particolare sulla distinzione fra significato e senso. Partendo dalla definizione comune di intelligenza, intesa come capacità di risolvere problemi, l’IA fa ancora fatica a distinguere il conoscere, legato al significato, dal capire, correlato al senso. L’IA è in grado di contenere informazioni, ma, non avendo una coscienza, non è né capace di essere consapevole di saperle, né di comprenderle; questo concetto ricorda l’esperimento della stanza cinese di John Searle, il quale dimostra che la macchina si comporta esattamente come un uomo che ripete a pappagallo frasi in cinese apprese, senza capire effettivamente quello che sta affermando. Inoltre le IA secondo Donà, non potendo andare oltre il significato delle informazioni che ripetono, non attribuiscono un senso a parole e frasi, una caratteristica che invece ha accompagnato gli umani nelle arti e nella poesia. La siepe di cui parla Leopardi nell’infinito non rappresenta un semplice cespuglio, ma un intero vissuto esistenziale, una metafora della sua condizione, mentre per l’intelligenza artificiale un termine non può trascendere il suo significato. Gli umani come tali abitano la dimensione del senso grazie alla loro imperfezione e ai loro limiti costitutivi, che corrispondono ai sentimenti, alle paure e ai desideri. La macchina perfetta per Donà sarà paradossalmente quella che raggiungerà l’imperfezione, esattamente come HAL9000 in 2001: Odissea nello spazio, l’unico supercomputer capace di aver paura della morte.
Michelangelo Suma, studente del corso di Filosofia e Storia all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Immagine di copertina: Cervia, Festival Filosofi sotto le stelle. Massimo Donà e Alberto Donati
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