L’11 luglio, di mattina, è morto Goffredo Fofi. Con lui muore un grande intellettuale, un pedagogo e educatore eretico, un mentore, un amico.
Fofi era nato nel 1937, a Gubbio, si era diplomato maestro e questa è sempre stata la sua vocazione. Nel 1955, a diciotto anni, raggiunge Danilo Dolci in Sicilia per lavorare con i diseredati, in un’ottica di nonviolenza ispirata da Aldo Capitini, di cui divenne in seguito amico, e Gandhi. Allontanato dalla questura con foglio di via, inizia la sua collaborazione con le figure di spicco della cultura italiana dell’epoca: prima segretario di Ignazio Silone, si sposta poi a Torino, scrive L’immigrazione meridionale a Torino, un saggio sociologico sulla grande trasformazione dell’Italia degli anni ’60 che metteva in luce la politica di sfruttamento della Fiat. Si trasferisce in Francia per studiare sociologia, collabora con alcune delle principali riviste di cinema parigine della rive droit. Ritorna a Torino ed è tra i fondatori della rivista di cinema Ombre rosse. Pochi sanno, e Goffredo lo raccontava ridendo, che in quegli anni contribuisce alla traduzione di romanzi erotici, tra i quali Emmanuelle: i soldi guadagnati vengono reinvestiti in molteplici altre iniziative culturali, ma è già evidente la cifra fondamentale di Fofi, cioè mescolare l’alto con il basso, la cultura popolare con la cultura più raffinata (la rivalutazione di Totò, per esempio, la si deve principalmente a lui), il cinema con la letteratura, il teatro con la musica, la pedagogia con l’arte, rifiutando tutto ciò che sa di consolatorio.
Partecipa al ’68, ma deluso dalla piega iper-ideologica che il movimento ha preso, si sposta nel ‘72 a Napoli per lavorare, insieme a Fabrizia Ramondino e Manlio Rossi Doria, alla mensa dei bambini proletari, una sorta di “immigrazione interna”. Apprezza e collabora con figure come Alex Langer, don Tonino Bello, appoggia l’esperienza di Nomadelfia, le buone pratiche dei valdesi.
L’attività principale di Goffredo risiede nella fondazione di molte riviste che hanno contribuito a svecchiare la cultura italiana e a far conoscere quanto di meglio avviene nel mondo: i Quaderni piacentini, con Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, Linea d’ombra, La terra vista dalla luna, Lo straniero, Gli asini. Le riviste erano anche un modo per mettere in contatto le realtà più vivaci del territorio, territorio che con una energia inesauribile percorreva avanti e indietro (in treno, visto che non aveva la patente), spinto da una curiosità instancabile, fin nella provincia più remota, dovunque ci potesse essere qualcosa da scoprire e far conoscere. Attento specialmente ai giovani, che sosteneva e incoraggiava, ma pronto a criticarli duramente quando inseguivano un successo fine a sé stesso.
Amico intimo di Elsa Morante, fu tra coloro che difesero a spada tratta il romanzo La storia. Elsa gli scrisse: “Il tempo non esiste, lo so, però stringe. Ti abbraccio, caro Goffredo. Finché tu sarai così, come sei adesso, cioè non invecchierai (nel senso triste di questa parola), per me sarebbe addirittura una bestemmia non volerti bene”. Con Fellini e Pasolini intrattenne un rapporto di stima reciproca, per quanto avesse espresso riserve e perfino critiche feroci nei confronti di alcuni loro film, ma sempre pronto a riconoscerne la loro statura autoriale. Fu anche un grande amante del teatro, illuminato negli anni ’60 dagli spettacoli del Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck, considerava Carmelo Bene un genio, si entusiasmò per la rinascita teatrale degli anni ’90, seguendo i lavori della Raffaello Sanzio Socìetas, del teatro delle Albe di Ravenna, dei Motus e di altri, salvo poi allontanarsi quando gli sembrò di riscontrare un loro ripiegamento su logiche autoreferenziali.

Non ho mai conosciuto un uomo più libero di lui, sapeva riconoscere il valore in autori apparentemente lontani dal suo mondo, apprezzando uno scrittore, un regista, un artista a partire dalla sua opera facendo piazza pulita dei pregiudizi ideologici: amava Simenon come Comisso, Sebald come Bolaño, Simone Weil come Kurt Vonnegut. Ma poteva essere anche un critico implacabile, specie quando prevalevano le derive narcisistiche. Spesso “esagerato” nei suoi amori come nelle sue stroncature, era sempre pronto a riconoscere il talento dovunque si nascondesse. Detestava la trasformazione della cultura in una sorta di nuovo oppio dei popoli, perché, diceva, «se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E a ben guardare, colpa».
Goffredo è stato un eretico, un disobbediente, un inquieto e irrequieto: ha scritto Nicola Lagioia, che resta uno dei suoi migliori discepoli: “Ha cercato di infilare in tante zucche vuote (o malamente riempite, le nostre) quel che ci entrava con il meglio del pensiero pedagogico, filosofico, artistico, democratico. Soprattutto lo spirito. Mettere insieme le persone. Questo gli riusciva magnificamente. Anche quando aveva ormai settant’anni, anche quando ne aveva ottanta, e poi ottantacinque, lo andavi a trovare e lui era lì che cucinava (senza l’aiuto di nessuno), per i suoi ospiti”.
Ho avuto il privilegio di conoscerlo e di diventare collaboratore delle sue riviste nei primi anni ’90, grazie a Alfonso Berardinelli. Mi si permetta di ricordare l’uomo Goffredo, per quanto va detto, non differisse poi dall’intellettuale: di pochi altri si può dire che tra quello che pensava, quello che diceva e quello che faceva c’era continuità. Gad Lerner ha scritto: “Umile e profondo, critico e generoso, un uomo giusto che ti veniva sempre voglia di abbracciare”. Ma, aggiungo io, che sempre ti preveniva abbracciandoti lui, per primo.
Ogni volta che veniva in Veneto, si fermava a dormire a casa mia, e conservo quelle cene, spesso insieme a Gianfranco Bettin, quelle stupende chiacchierate, la sera o al mattino all’alba (si svegliava sempre alle sei e io mi alzavo lesto, felice di preparagli il caffè) tra i ricordi più preziosi. Era splendidamente generoso di consigli di lettura o di film, e quel poco di buono che sono riuscito a combinare, lo devo esclusivamente a lui. Goffredo era una persona che ti cambiava, c’era un che di evangelico che lo rendeva un pescatore di uomini: una sensazione condivisa con molti amici cresciuti con me nelle riviste. La notizia della sua morte mi ha lasciato affranto, credevo che Goffredo non dovesse morire mai. Ho sentito una volta di più la definitività della morte, la crudeltà con cui ci strappa per sempre – per sempre! – le persone più amate: ho pianto, a lungo, di commozione e di rabbia impotente.
Ma voglio terminare questo articolo imperfetto e incompleto (ma come si fa a essere completi con Goffredo e i suoi mille interessi e attività?) con alcune massime che amava ripetere. La prima viene da Salvemini, e Goffredo la ripeteva spesso: fa’ quel che devi, accada quel che può, dove l’accento cade sul dovere etico e morale di fare ciò che riteniamo giusto, senza attenderci riconoscimenti.
La seconda viene da don Tonino Bello: in un mondo come il nostro, bisognerebbe riscrivere le opere di misericordia, perché non si tratta più di consolare gli afflitti, ma di affliggere i consolati.
L’ultima invece proviene proprio da Goffredo. Si tratta di quattro regole per combattere la disillusione: resistere, studiare, fare rete e rompere i coglioni.
Nicola De Cilia, scrittore, critico letterario e docente
Immagine di copertina: Goffredo Fofi
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