RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Va tutto a catafascio! Kurt Tucholsky, Karl Valentin e la cultura di Weimar, di Alberto Trentin

[Tempo di Lettura: 11 minuti]

 

Kurt Tucholsky


Sicuramente avrete a disposizione per la vita quotidiana trecento macchine inutili più di noi, ma per il resto siete altrettanto ottusi e altrettanto intelligenti, proprio come noi. E che cosa è rimasto di noi? Non frugare nella memoria, in ciò che hai imparato a scuola. È rimasto quel che è rimasto per caso, quel che era talmente neutro da poter giungere fino a voi; di ciò che era veramente importante, più o meno è arrivata solo la metà, e nessuno se ne cura, semmai la domenica mattina, al museo.

Sono parole che lo scrittore e giornalista Kurt Tucholsky (1890-1935) rivolse nel 1926 a un immaginario lettore del 1985. Traspare, anche solo da queste poche righe, un senso di generale sfiducia nell’uomo del futuro, motivata dalla consapevolezza che l’essere umano è più o meno sempre lo stesso pur nel mutare dei tempi, e che non contano i gradi di progresso materiale, tecnologico, scientifico, via via raggiunti a svilupparlo in una versione migliore. Al fondo, gli ingredienti combinati rimangono i medesimi, e così i risultati, così le grandi conquiste, così i più fondi abissi, così le lezioni imparate. È un pessimismo, questo di Tucholsky, che matura in maniera progressiva mano a mano che egli si accorge di essere inascoltato; scrittore molto prolifico, intellettuale impegnato a smontare i miti fondanti della cultura tedesca e appassionato nell’indicare e preparare una via alternativa per le generazioni future, sconta presto la vanità del suo lavoro poiché si accorge «che lo spirito tedesco era intossicato quasi senza speranza di recupero e di essere diventato uno di quelli che non credevano nella possibilità d’un miglioramento, che consideravano la democrazia tedesca nient’altro che una facciata e una menzogna»1. A seguito della presa del potere di Hitler, Tucholsky compì il gesto estremo, togliendosi la vita il 21 dicembre del 1935.

Bertolt Brecht

Tucholsky, che apparteneva allo schieramento degli intellettuali di sinistra, fu ad ogni modo un grande autore della Germania di Weimar, uno di quelli che, per prendere a pretesto la sua stessa domanda, è rimasto. Il che significa, per chi di mestiere lavora con la penna, che è stato letto e riletto negli anni a seguire. In Italia certo la sua fama fu minore di altri suoi grandi contemporanei (Bertolt Brecht (1898-1956), Hermann Hesse (1877-1962), Thomas Mann (1875-1955), Rainer Maria Rilke (1875-1926)), ma in patria la sua scrittura satirica fu molto apprezzata.

Ernst Bloch

Eppure la verve di Tucholsky, la sua satira estrema, il suo dichiarato ripudio per tutto ciò che era tedesco, se da un lato puntava il dito contro aspetti reali e realmente stigmatizzabili, dall’altro ne travisava altri e, non conoscendo vie di mezzo, in parte contribuì a creare il terreno migliore sul quale la retorica hitleriana e nazista avrebbe allignato in modo perfetto e terribile. Non vide, o non volle vedere, che pur non perfetto, il clima culturale e politico della Germania degli anni Venti era libero quanto mai prima e, per quanto sta al discorso di queste righe, il periodo di Weimar2 (1919-1933) fu dal punto di vista culturale assai prolifico, tanto che il filosofo Ernst Bloch lo descrisse come una nuova «Età di Pericle». È facilmente intuibile che questo fermento senza pari non sia nato dal nulla nelle ore che seguirono il trattato di Versailles; anzi come scrive Walter Laqueur nella sua monografia «la cultura di Weimar precedette la Repubblica di Weimar di almeno un decennio3». Nell’affermazione si comprende come vadano tenute staccate le considerazioni sui cambiamenti in ambito politico (la sconfitta nella guerra, l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II, la formazione della Repubblica, il consenso dei vari partiti in campo etc.), da quanto si può dire sull’innegabile fermento che caratterizzò la vita culturale della Germania fino ai primi anni Trenta. Ciononostante, è indubbio che sullo sfondo di un tentativo inedito di costruzione di un governo democratico, poterono svilupparsi correnti artistiche fondamentali che ingaggiavano con la realtà in rapido mutamento un dialogo serrato.

Das Cabinet des Dr. Caligari, regia di Robert Wiene, 1920

Ogni arte fu interessata da un movimento interno di trasformazione e creazione: nel cinema si parla di espressionismo tedesco per riferirsi all’innovativa cinematografia degli Anni Venti: dal primo capolavoro, diretto da Robert Wiene: Il gabinetto del dottor Caligari (1920), ai successivi Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau (1922) e Il dottor Mabuse, di Fritz Lang (1922), si attraversa il decennio con Metropolis ancora di Lang (1926), con la Trilogia della donna perduta (La via senza gioia, 1925, Il vaso di Pandora, 1929, e Diario di una donna perduta, 1929) di Georg Wilhelm Pabst, e si arriva agli ultimi capolavori di inizio anni Trenta, che segnano anche la fine di questo periodo d’oro: L’angelo azzurro di Josef von Sternberg (1930), tratto da un romanzo di Heinrich Mann, e M. – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang (1931); in queste opere capitali, alcune delle quali a fondamento di generi cinematografici di successo come la fantascienza o il noir, a prevalere sono temi quali il rapporto indicidibile tra allucinazione e realtà, o quello classico del doppio; si porta avanti una riflessione critica sulla civiltà industriale e sui legami tra il potere, la ricchezza e lo sfruttamento delle classi subalterne; ci si interroga sul male non tanto in termini metafisici ma per la sua reale presenza quotidiana.
E poi l’arte, con le caricature politiche di Otto Dix, John Heartfield e George Grosz e più in generale il movimento artistico della Neue Sachlichkeit al quale appartenevano; e poi la scuola d’arte e design del Bauhaus, che univa alla matrice didattica, il ruolo di centro d’innovazione per quanto riguardava l’estetica, il design, l’architettura; e ancora il funzionalismo di Ernst May e Bruno Taut; e poi, in campo musicale, da un lato la dodecafonia di Arnold Schoenberg, Alban Berg e Anton Webern, dall’altro l’espressionismo di Kurt Weill.

Kurt Weill e la moglie Lotte Lenya, attrice austriaca

Il teatro degli anni Venti fu anch’esso di svolta. Se prima della guerra il modello dichiarato era il naturalismo di Strindberg, l’orrore del conflitto aprì due strade di ricerca differenti: l’una politica, l’altra espressionista. Se la seconda mantiene degli agganci con quanto era stato prima, è certo la linea politica (Toller, Piscator, Brecht) a costituire una vera rivoluzione. A queste due linee principali e segnatamente teatrali, va affiancata una terza area di interesse, quella dal cabaret che visse momenti straordinari in quegli anni; è a questo mondo che rimanda il musical di Broadway Cabaret (1966) e l’omonimo film diretto da Bob Fosse (1972), rifacendosi al libro autobiografico di Christopher Isherwood, Addio a Berlino (1939).
Torniamo a Tucholsky. Nel 1929 pubblica un libro intitolato Deutschland,Deutschland über alles4, un’opera di feroce satira politica e sociale che si presenta in una forma di indubbia modernità, mescolando i testi dello scrittore alle fotografie di John Heartfield, artista dadaista; per Tucholsky la fotografia è imbattibile nel ritrarre la realtà per la sua obiettività. Siamo vicini alle contemporanee concezioni della neo-eggettività. La violenza della critica di Tucholsky fu tale da suscitare moltissime reazioni sdegnate e da costringerlo a emigrare in Svezia.

Uno dei suoi ritratti è destinato a un attore che Tucholsky ha la fortuna di vedere recitare a Berlino, tappa di una tournée che lo sta portando in giro per la Germania da Monaco, città nella quale è normalmente attivo. Si chiama Karl Valentin.

Valentin, all’anagrafe Valentin Ludwig Fey, nacque in un sobborgo di Monaco di Baviera nel 1882. Unico sopravvissuto di tre fratelli, poco incline agli studi, venne dapprima mandato dal padre in una bottega di falegname e scelse poi di dedicarsi all’attività teatrale alla scuola di varietà del comico Hermann Strebel, noto umorista e cabarettista nelle birrerie bavaresi. Questa formazione segnerà la carriera di Valentin che sin dal 1902 iniziò a esibirsi con propri spettacoli itineranti costruendo e perfezionando quelle che saranno le caratteristiche definitive della sua comicità: un’attenzione alle contraddizioni insite nella logica e nella sintassi del discorso quotidiano; l’uso controintuitivo degli oggetti comuni; la ridondanza; la gestualità significativa; la frattura tra le parole e le cose che quelle dovrebbero significare.

Io arrivai tardi a teatro; la sala era già calda e risuonava di risa. Doveva essere cominciato da poco, ma la gente era eccitata e divertita come lo è in genere dopo un buon secondo atto. Sul podio della piattaforma del palcoscenico, in mezzo all’orchestra, sedeva un uomo con una parrucca finta; aveva l’aspetto di un comico di provincia: io mi concentrai sulla scena, ma con tutta la buona volontà non riuscii a capire che cosa ci fosse da ridere… Ma la gente continuava a ridere e l’uomo non aveva detto proprio nulla… Improvvisamente i miei occhi si spostarono: davanti, in prima fila stava seduto un altro uomo, di cui finora non mi ero accorto, ed era lui: LUI.
Un tipo alto, allampanato, con lunghe gambe sottili alla Don Quichote e angolose ginocchia a punta, un buchetto nei pantaloni, e un abito logoro e consunto. […] E comincia la più strana comica che si sia vista da tempo sulla scena: una danza infernale della ragione intorno ai due poli della follia. […] Non riesco a ricordarmi quando mai si sia riso così tanto in un teatro5.

Karl Valentin  con il suo cane Bopsi durante una pausa delle riprese del film Donner, Blitz und Sonnenschein

Perché Valentin faceva ridere, senza dubbio né eccezioni, tanto nell’iniziale attività solistica, quanto poi, quando ebbe come compagna di palcoscenico Elisabeth Wellano, da Valentin rinominata Liesl Karstadt. Fu con lei che Valentin girò la Germania di Weimar portando ovunque la propria stralunata comicità e sperimentando anche l’arte nata per ultima, girando una serie di cortometraggi in cui il suo estro e la sua plasticità mimica erano ancor più evidenziati, tanto che per Brecht Valentin doveva essere messo alla pari del grande Chaplin. I due, Valentin e Brecht, si conobbero agli inizi degli anni Venti e brevemente collaborarono; Brecht in seguito ebbe modo di riconoscere sia l’influenza che Valentin esercitò sulla sua nascente idea drammaturgica, sia l’importanza che l’autore e attore bavarese ricopriva nel teatro tedesco.
L’ambiente di Valentin è quello cittadino e quotidiano, è la folla, è la birreria in cui i clienti, per lo più proletari, pagano la consumazione (birra, cavoli, salsicce) e in più si godono uno spettacolo di cabaret. Come dice Mara Fazio, Valentin «è un umorista. Lui, che nella vita è un uomo qualunque, sulla scena non recita mai un testo scritto da altri. Non improvvisa. Non dialoga con il pubblico. Non disegna un carattere, ma studia, per smontarla, la situazione, i comportamenti […] indagando con attitudine nordica e riflessiva i meccanismi della vita quotidiana osservati nella sua gente6».
Tra i molti, Valentin ebbe a metà degli anni Venti, come spettatore d’eccezione, Hermann Hesse impegnatosi nel 1925 in un viaggio che dal Canton Ticino, dove si era ritirato, lo portò per una serie di letture pubbliche fino in Baviera, a Monaco; lì fece visita ad alcuni amici ed ebbe per l’appunto occasione di godersi una performance teatrale di Valentin.

Con una compagnia risicata portò in scena quel suo magnifico pezzo, uno straordinario tour de force, il cui fine era solo quello di dare a lui, Valentin, l’opportunità di marciare avanti e indietro, vestito da sentinella, con uno sciabolone, facendo o dicendo cose buffe. Talvolta era anche triste da far piangere, per esempio quando in un freddo crepuscolo, presso le mura, suonava la fisarmonica ripensando alla sua giovinezza, alla guerra e alla morte. Oppure quando si dilungò a raccontare cogitabondo un sogno in cui era un’anatra, e mancò poco che divorasse un lungo verme. Qui era rappresentata nella sua forma più semplice e toccante la limitatezza dell’umana facoltà di conoscere. Anche questo passaggio tragico, così come quello della fisarmonica, fu salutato da una fragorosa salva di risate: non ho mai visto un pubblico più divertito. Come ridono volentieri gli uomini, tutti! Vengono fin qui nel freddo da sobborghi lontani, sborsano quattrini, affrontano lunghe attese, tornano a casa a mezzanotte, e tutto ciò solo per poter ridere un po’. Risi molto anch’io, per me lo spettacolo sarebbe potuto durare anche fino al mattino. Sa Iddio quando ci sarà un’altra occasione per ridere. Quanto più grande è il comico, quanto più terribile e scoperta è la sua maniera di ridurre a formula comica la nostra stupidità e il nostro insulso, angosciante destino umano, tanto più si ride! […] Quello di Valentin è tra i ricordi più preziosi del mio viaggio.7

Nella comicità stralunata, mai aggressiva, estremamente fisica e legata alla quotidianità di Valentin, come abbiamo accennato, al centro sta la dissoluzione delle due logiche principali che governano il mondo delle relazioni umane: quella linguistica e quella oggettuale. Il lavoro del comico, attraverso la parola e le situazioni, punta a far esplodere entrambe dall’interno, attraverso un procedere evolutivo e accumulativo in cui la tensione aumenta fino alla deflagrazione finale; ma si tratta di una soluzione che non riporta lo stato delle cose a una nuova condizione di equilibrio (si veda, su tutti, In farmacia), perché al fondo rimane, in scena e in platea, il tarlo di un divertimento che è piuttosto una diversione; il mondo “normale” e “quotidiano” messo in scena da Valentin resta, alla fine, con uno strappo che lascia intuire la sua natura mostruosa, informe.

Immaginatevi un po’ un caffè senza la tazza! Non lo si può mica bere dal macinino! Oppure un tavolo senza gambe: non si avrebbe neppure bisogno del tavolo, basterebbe sedersi per terra. E sempre la stessa cosa succede con un orologio senza lancette. Vedete, io per esempio sono anni che giro con un orologio senza lancette; ma non mi serve a niente! Certo è sempre un orologio, – non vorrete mica sostenere che è un pappagallo? Potrei portarlo dall’orologiaio, ma nel momento che lo do all’orologiaio, rimango senza orologio, perciò è senz’altro meglio avere almeno quello, anche se non funziona; tanto lo so che senza lancette non può funzionare. Cioè, funzionare potrebbe, – dentro – ma fuori non si vedrebbe, e quindi tutto l’orologio non servirebbe a niente. […] Io trovo che l’orologio è una cosa superflua. Vedete, io abito molto vicino al municipio e tutte le mattine, quando vado in ufficio, guardo l’orologio del municipio per vedere l’ora e poi cerco di ricordarmela per tutto il giorno, così non consumo il mio orologio!8

Valentin lavorò senza sosta per tutto il periodo tra le due guerre, fino al ’39, quando si ritirò a vita privata. Pur non essendosi mai esposto pubblicamente in termini politici, e pur essendo stato sopportato dal nazismo, la sua comicità tacque durante i terribili anni del secondo conflitto. Ritornò sulle scene nel 1947, ancora accompagnato da Liesl Karstadt. Durò solo un anno. Il 9 febbraio del 1948 morì di una polmonite che gli era venuta dopo essere rimasto per sbaglio chiuso in un teatro, al freddo, un’intera notte.

 

Note

1.  Cit. in Walter Laqueur, La Repubblica di Weimar, Rizzoli, Milano 1977, trad. di Lydia Magliano, p. 64
2.  
Weimar è la città della Turingia dove si radunò l’Assemblea Nazionale – che aveva carattere di Assemblea Costituente e di Parlamento – composta dopo le elezioni del 19 gennaio 1919, successive all’abdicazione dell’imperatore Guglielmo II (9 novembre 1918) e alla mancata successione. Nelle elezioni il primo partito fu la SPD – Partito Socialdemocratico Tedesco, seguito dal Partito di Centro e da altre liste. Lo stesso anno a Weimar fu siglata la Costituzione che istituiva la Repubblica parlamentare (i cui rappresentati erano eletti con il sistema proporzionale e il suffragio universale).
3. 
Walter Laqueur, op. cit., p. 6
4.  
In italiano la prima edizione disponibile e della quale mi servo, pubblicata da Lucarini nel 1991 e ormai introvabile, è stata ripubblicata da Meltemi nel 2018, con l’aggiunta di una introduzione di Maurizio Guerri.
5. 
Kurt Tucholsky, Deutschland, Deutschland über alles, Lucarini, Roma 1991, Trad. di Alessandra Pepe, pp. 134-136
6.  
Mara Fazio, Maschera Valentin, maschera Petrolini, in Franca Angelini (a cura di), Petrolini. La maschera e la storia, Laterza, Roma-Bari 1984, p.52
7.  
Hesse Hermann, Viaggio a Norimberga, Adelphi, Milano 2019, Trad. di Margherita Belardetti
8.  
Karl Valentin, Tingeltangel, Adelphi, Milano 19973, pp. 59-60

 

Bibliografia

Böhme-Kuby Susanna, Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e le Repubblica di Weimar, Il Melangolo, Genova 2002
Fazio Mara, Maschera Valentin, maschera Petrolini, in Angelini Franca (a cura di), Petrolini. La maschera e la storia, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 47-56
Gay Peter, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 2002, Trad. di Mauro Merci
Hesse Hermann, Viaggio a Norimberga, Adelphi, Milano 2019, Trad. di Margherita Belardetti
Klein Claude, La Repubblica di Weimar, Mursia, Milano 1983, Trad. di Pietro Cabrini
Laqueur Walter, La Repubblica di Weimar, Rizzoli, Milano 1977, Trad. di Lydia Magliano
Roveri Alessandro, Da Versailles a Hitler. Breve storia della Repubblica di Weimar (1919-1933), Mondadori, Milano 1991
Tucholsky Kurt, Deutschland, Deutschland über alles, Lucarini, Roma 1991, Trad. di Alessandra Pepe
Valentin Karl, Tingeltangel, Adelphi, Milano 19973, Trad. di Mara Fazio

 

Foto di copertina
Bertolt Brecht (col flauto), Karl Valentin (al centro, con la tuba) e la sua sodale Liesl Karlstadt (con cilindro) nel Lachkeller di Monaco (1920)

_____________________________

 

Alberto Trentin è nato a Treviso nel 1979. Ha conseguito la laurea in filosofia a Ca’ Foscari, un dottorato in filosofia del Rinascimento, e un master triennale in pedagogia clinica, con una tesi sul soggetto nella contemporaneità.
Ha organizzato la kermesse culturale Treviso allo specchio nel 2009 e dal 2015 ha collaborato con l’associazione NinaVola per il festival Carta Carbone.
Ha scritto testi teatrali, negli anni portati in scena a Treviso e provincia. Ha pubblicato due raccolte di poesie, La voce dei padri (Samuele Editore, Pn 2010), Vuoti d’ossa (Arcipelago Itaca, An 2017), e curato una raccolta di saggi sulla globalizzazione (Istresco, Tv 2010), con uno personale sulla retorica digitale.
Ha pubblicato su riviste internazionali di poesia (Soglie, NeMLA, Gradiva, Italian Poetry Review) e su antologie collettanee per vari editori, nonché su riviste di critica con alcuni saggi di letteratura contemporanea su Dino Buzzati, Ezra Pound, Bartolo Cattafi.
È docente presso la scuola permanente di scrittura autobiografica de Il portolano, a Treviso. Scrive per la rivista trimestrale Digressioni.
Il sito internet: www.albertotrentin.it

© finnegans. Tutti i diritti riservati