RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Un silenzio ontologico, di Raffaele Vertucci

[Tempo di Lettura: 9 minuti]

Uno spazio nuovo di riflessione spirituale

Finnegans vuole continuare a distinguersi sempre più nel panorama delle riviste culturali per la sua originaria vocazione all’apertura intellettuale, alle avventure del pensiero e dell’arte, all’analisi dei fenomeni di grande impatto sociale, al confronto delle idee e delle tradizioni culturali, percorrendo le strade della multiculturalità che in tempi di chiusura e di proibizione, di distanziazione sociale, possa al contrario stimolare i processi di avvicinamento, la molteplicità delle visioni e diventare una vera risorsa per le malattie dello spirito che spesso si annidano in quelle del corpo.

Per tale ragione abbiamo deciso di aprire per i lettori uno spazio nuovo di riflessione spirituale, che sia anche storica, teologica e teorica, una sorta di rubrica aperiodica ma di lunga durata, dedicata all’approfondimento di temi filosofici e religiosi (comprendendo quindi tutte le esperienze religiose), capaci di suscitare l’interesse e la curiosità non solo di chi può riconoscersi più facilmente nelle linee ispiratrici dei singoli autori che saranno invitati a collaborare, ma di tutti coloro che da questo silente contraddittorio potranno trarre il beneficio dell’incontro con la ricchezza delle diversità.

Lo facciamo precisamente da laici e per questo in realtà ancora più determinati ad ospitare ed accogliere contribuiti molto diversi, in qualche caso forse perfino discordi tra loro o apparentemente lontani dalle nostre stesse personali formazioni, ma in grado di agire come il lievito di una conoscenza che può divenire patrimonio comune e una spinta ad uscire da sé nell’ascolto dell’altro.

Iniziamo proponendo un testo di Raffaele Vertucci ispirato allo studio della patristica cristiana, intonato al periodo pasquale (è in corso la Pesach ebraica e si sta approssimando la Pasqua cristiana), ma anche al momento di particolare sofferenza e pericolo che stiamo attraversando.

Santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno

Premessa

In un tempo come questo che stiamo vivendo, in cui gli spazi aperti vuoti di persone ci invitano a coglierne il silenzio che li contraddistingue, si propone una riflessione proprio sul silenzio ontologico.
Ontologico perché esso ci può condurre ai fondamenti del nostro essere, alla nostra abitazione interiore, alla nostra “casa”, al più intimo del nostro intimo, al riscatto della dimensione sacrale che è in noi e del soffio divino che molte volte dimentichiamo nel corso della vita.
Ci aiuta perciò a comprendere che siamo semplicemente esseri umani aperti agli altri e all’Altro. È questo perciò forse il tempo del silenzio pieno di Essere che nella sua profondità ci conduce all’abisso esistenziale (quell’Abgrund tanto caro ad Heidegger e prima di lui a Meister Eckart) del nostro essere per riempirlo di significato.

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          Dove è Dio in questo silenzio? E se fosse Egli stesso la Parola, la risposta a questo silenzio presunto? È un Silenzio che urla, a mio avviso… urla alla Coscienza dell’Essere umano rimasto e obbligato a stare solo con se stesso per ritrovarsi… “Tu eri con me, ma io non ero con te”. (Sant’Agostino, Confessioni 10.27.38 )… “Tu eri dentro di me, e io fuori” (Sant’Agostino, Confessioni 10.27.38 ).
          Forse la risposta allora è nel Pensiero dei Padri della Chiesa… in Agostino appunto, ma anche in Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo… in questo tempo di Pasqua… è giusto pensare che su ogni tomba ci possa essere una Resurrezione… è come ritrovarsi oggi di fronte al Crocifisso del Velásquez in cui quell’uomo crocifisso – che emerge da uno sfondo totalmente buio, col suo corpo nudo dalla carne luminosa, quasi ritto e solenne su quella croce che diventa il suo trono (non per nulla una nube dorata avvolge il suo capo chinato) – interpella lo spettatore senza fissarlo negli occhi e senza interrogarlo direttamente, di fronte a cui si sperimenta un silenzio di morte, ma la serenità che ne emana dice già la vittoria sulla morte!

Il Cristo crocifisso, di Diego Velázquez (1632 ca.) – Museo del Prado, Madrid

          Un silenzio pertanto ontologico, che rimanda ovvero a un Essere che ci parla e ci interroga e che penso tocchi l’animo di tutti, cristiani e non; come non pensare qui a un ateo dichiarato come Emile Cioran quando compativa i teologi che pure l’avevano assediato coi loro raffinati percorsi speculativi, perché non erano stati capaci di riconoscere un dato elementare: «Ogni volta che ascolto la Messa in si minore o la Passione secondo Matteo o una cantata di Bach devo confessare che Dio deve esistere ed è questa l’unica prova che i teologi hanno trascurato».
E in questo senso, non possiamo ignorare che i Vangeli non considerano la morte di Cristo sulla croce l’estuario definitivo di un’esistenza votata all’abisso del silenzio sepolcrale.
          Mi affido pertanto al ritorno ai Padri, e in particolare alla Parola di GREGORIO DI NAZIANZO. Ascoltiamolo nei Discorsi 45, 23-24; PG 36, 654-655:
Saremo partecipi della Pasqua, presentemente ancora in figura (certo già più chiara di quella dell’antica legge, immagine più oscura della realtà figurata), ma fra non molto ne godremo di una più trasparente e più vera, quando il Verbo festeggerà con noi la nuova Pasqua nel regno del Padre. Allora ci manifesterà e insegnerà quelle realtà che non ci mostra ora se non di riflesso. Infatti quali siano la bevanda e il cibo del nuovo banchetto pasquale, il nostro compito è solo di apprenderlo. Spetta al Verbo di insegnarcelo e comunicarcene il significato. L’insegnamento effettivamente è come un cibo, il cui possessore è colui che lo distribuisce. Entriamo, dunque, nella sfera della legge, delle istituzioni e della Pasqua antica in modo nuovo per poter arrivare alle realtà nuove simboleggiate dalle figure antiche. Diveniamo partecipi della legge in maniera non puramente materiale, ma evangelica, in modo completo e non limitato e imperfetto, in forma duratura e non precaria e temporanea. Facciamo nostra capitale adottiva non la Gerusalemme terrena, ma la metropoli celeste, non quella che viene calpestata dagli eserciti, ma quella acclamata dagli angeli.
Sacrifichiamo non giovenchi, né agnelli, con corna e unghie, che appartengono più alla morte che alla vita, mancando d’intelligenza. Offriamo a Dio un sacrificio di lode sull’altare celeste insieme ai cori degli angeli. Superiamo il primo velo del tempio, accostiamoci al secondo e penetriamo nel «Santo dei santi». E più ancora, offriamo ogni giorno a Dio noi stessi e tutte le nostre attività. Facciamo come le parole stesse ci suggeriscono. Con le nostre sofferenze imitiamo le sofferenze, cioè la passione di Cristo. Con il nostro sangue onoriamo il sangue di Cristo. Saliamo anche noi di buon animo sulla sua croce. Dolci sono infatti i suoi chiodi, benché duri.
Siamo pronti a patire con Cristo e per Cristo, piuttosto che desiderare le allegre compagnie mondane.
Se sei Simone di Cirene prendi la croce e segui Cristo. Se sei il ladro e se sarai appeso alla croce, se cioè sarai punito, fai come il buon ladrone e riconosci onestamente Dio, che ti aspettava alla prova. Egli fu annoverato tra i malfattori per te e per il tuo peccato, e tu diventa giusto per lui. Adora colui che è stato crocifisso per te. Se vieni crocifisso per tua colpa, trai profitto dal tuo peccato. Compra con la morte la tua salvezza, entra con Gesù in paradiso e così capirai di quali beni ti eri privato. Contempla quelle bellezze e lascia che il mormoratore, del tutto ignaro del piano divino, muoia fuori con la sua bestemmia.
Se sei Giuseppe d’Arimatèa, richiedi il corpo a colui che lo ha crocifisso, assumi cioè quel corpo e rendi tua propria, così, l’espiazione del mondo.
Se sei Nicodemo, il notturno adoratore di Dio, seppellisci il suo corpo e ungilo con gli unguenti di rito, cioè circondalo del tuo culto e della tua adorazione.
E se tu sei una delle Marie, spargi al mattino le tue lacrime. Fa’ di vedere per prima la pietra rovesciata, vai incontro agli angeli, anzi allo stesso Gesù.
Ecco che cosa significa rendersi partecipi della Pasqua di Cristo”.

San Gregorio di Nazianzo

          Ecco, in questo tempo che io ormai definisco di trapasso affidarsi a chi ha vissuto prima di noi simili “venture” penso sia d’obbligo. Ebbene, chi è Gregorio di Nazianzo allora? Originario della Cappadocia, illustre teologo, oratore e difensore della fede cristiana nel IV secolo, fu celebre per la sua eloquenza, ed ebbe anche, come poeta, un’anima raffinata e sensibile.
          Gregorio nacque da una nobile famiglia. La madre lo consacrò a Dio fin dalla nascita, avvenuta intorno al 330. Dopo la prima educazione familiare, frequentò le più celebri scuole della sua epoca: fu dapprima a Cesarea di Cappadocia, dove strinse amicizia con Basilio, futuro Vescovo di quella città, e sostò poi in altre metropoli del mondo antico, come Alessandria d’Egitto e soprattutto Atene, dove incontrò di nuovo Basilio (cfr Discorso 43,14-24). Rievocandone l’amicizia, Gregorio scriverà più tardi: «Allora non solo io mi sentivo preso da venerazione verso il mio grande Basilio per la serietà dei suoi costumi e per la maturità e saggezza dei suoi discorsi, ma inducevo a fare altrettanto anche altri, che ancora non lo conoscevano… Ci guidava la stessa ansia di sapere… Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo. Sembrava che avessimo un’unica anima in due corpi» (Discorso 43,16.20). Sono parole che rappresentano un po’ l’autoritratto di quest’anima nobile. Ma si può anche immaginare che quest’uomo, che era fortemente proiettato oltre i valori terreni, abbia sofferto molto per le cose di questo mondo.
          Tornato a casa, Gregorio ricevette il Battesimo e si orientò verso la vita monastica: la solitudine, la meditazione filosofica e spirituale lo affascinavano. Egli stesso scriverà: «Nulla mi sembra più grande di questo: far tacere i propri sensi, uscire dalla carne del mondo, raccogliersi in se stesso, non occuparsi più delle cose umane, se non di quelle strettamente necessarie; parlare con se stesso e con Dio, condurre una vita che trascende le cose visibili; portare nell’anima immagini divine sempre pure, senza mescolanza di forme terrene ed erronee; essere veramente uno specchio immacolato di Dio e delle cose divine, e divenirlo sempre più, prendendo luce da luce…; godere, nella speranza presente, il bene futuro, e conversare con gli angeli; avere già lasciato la terra, pur stando in terra, trasportati in alto con lo spirito» (Discorso 2,7).
          Come confida nella sua autobiografia (cfr Poesie [storiche2,1,11 sulla sua vita 340-349), ricevette l’ordinazione presbiterale con una certa riluttanza, perché sapeva che poi avrebbe dovuto fare il Pastore, occuparsi degli altri, delle loro cose, quindi non più così raccolto nella pura meditazione. Tuttavia egli poi accettò questa vocazione e assunse il ministero pastorale in piena obbedienza, accettando, come spesso gli accadde nella vita, di essere portato dalla Provvidenza là dove non voleva andare (cfr Gv 21,18). Nel 371 il suo amico Basilio, Vescovo di Cesarea, contro il desiderio dello stesso Gregorio, lo volle consacrare Vescovo di Sasima, un paese strategicamente importante della Cappadocia. Egli però, per varie difficoltà, non ne prese mai possesso, e rimase invece nella città di Nazianzo.

San Gregorio di Nazianzo

          Verso il 379, Gregorio fu chiamato a Costantinopoli, la capitale, per guidare la piccola comunità cattolica fedele al Concilio di Nicea e alla fede trinitaria. La maggioranza aderiva invece all’arianesimo, che era «politicamente corretto» e considerato politicamente utile dagli imperatori. Così egli si trovò in condizioni di minoranza, circondato da ostilità. Nella chiesetta dell’Anastasis pronunciò cinque Discorsi teologici (27-31) proprio per difendere e rendere anche intelligibile la fede trinitaria. Sono discorsi rimasti celebri per la sicurezza della dottrina, l’abilità del ragionamento, che fa realmente capire che questa è la logica divina. E anche lo splendore della forma li rende oggi affascinanti. Gregorio ricevette, a motivo di questi discorsi, l’appellativo di «teologo». Così viene chiamato nella Chiesa ortodossa: il «teologo». E questo perché la teologia per lui non è una riflessione puramente umana, o ancor meno frutto soltanto di complicate speculazioni, ma deriva da una vita di preghiera e di santità, da un dialogo assiduo con Dio. E proprio così fa apparire alla nostra ragione la realtà di Dio, il mistero trinitario. Nel silenzio contemplativo, intriso di stupore davanti alle meraviglie del mistero rivelato, l’anima accoglie la bellezza e la gloria divina. Mentre partecipava al secondo Concilio Ecumenico del 381, Gregorio fu eletto Vescovo di Costantinopoli, e assunse la presidenza del Concilio. Ma subito si scatenò contro di lui una forte opposizione, finché la situazione divenne insostenibile. Per un’anima così sensibile queste inimicizie erano insopportabili. Si ripeteva quello che Gregorio aveva già lamentato precedentemente con parole accorate: «Abbiamo diviso Cristo, noi che tanto amavamo Dio e Cristo! Abbiamo mentito gli uni agli altri a motivo della Verità, abbiamo nutrito sentimenti di odio a causa dell’Amore, ci siamo divisi l’uno dall’altro!» (Discorso 6,3). Si giunse così, in un clima di tensione, alle sue dimissioni. Nella cattedrale affollatissima Gregorio pronunciò un discorso di addio di grande effetto e dignità (cfr Discorso 42). Concludeva il suo accorato intervento con queste parole: «Addio, grande città, amata da Cristo… Figli miei, vi supplico, custodite il deposito [della fede] che vi è stato affidato (cfr 1 Tm 6,20), ricordatevi delle mie sofferenze (cfr Col 4,18). Che la grazia del nostro Signore Gesù Cristo sia con tutti voi» (cfr Discorso 42,27).
          Ritornò a Nazianzo, e per circa due anni si dedicò alla cura pastorale di quella comunità cristiana. Poi si ritirò definitivamente in solitudine nella vicina Arianzo, la sua terra natale, dedicandosi allo studio e alla vita ascetica. In questo periodo compose la maggior parte della sua opera poetica, soprattutto autobiografica: le Poesie sulla sua vita, una rilettura in versi del proprio cammino umano e spirituale, cammino esemplare di un cristiano sofferente, di un uomo di grande interiorità in un mondo pieno di conflitti. È un uomo che ci fa sentire il primato di Dio, e perciò parla anche a noi, a questo nostro mondo: senza Dio l’uomo perde la sua grandezza, senza Dio non c’è vero umanesimo. Ascoltiamo perciò questa voce e cerchiamo di conoscere anche noi il volto di Dio. In una delle sue poesie aveva scritto, rivolgendosi a Dio: «Sii benigno, Tu, l’Aldilà di tutto» (Poesie [dogmatiche] 1,1,29). E nel 390 Dio accoglieva tra le sue braccia questo servo fedele, che con acuta intelligenza l’aveva difeso negli scritti, e che con tanto amore l’aveva cantato nelle sue poesie.

Piero della Francesca, Resurrezione, affresco (1460 ca.) – Museo Civico di Sansepolcro

          In questo Tempo di Passaggio per la nostra umanità pertanto vorrei chiudere proprio con l’invocazione di Gregorio a Dio: «Sii benigno, Tu, l’Aldilà di tutto», in  questo suo presunto Silenzio che è invece Orante, ontologico e che in quanto tale ci invita a Pensare, Pensare che è tale perché è un Pensare in Lui!
          Pensare in Lui non vuol dire altro che essere consapevoli che dopo le ore dell’agonia, che è questo tempo forse che oggi stiamo vivendo, la tenebra della morte e del virus che ci inonda di paura e morte, e il grembo della tomba, sorge il sole dell’alba di Pasqua. È «il paradosso della Risurrezione», poiché la morte di Cristo sulla croce non è l’estuario definitivo di un’esistenza votata all’abisso del silenzio sepolcrale. Ecco perché in questi giorni mi sovveniva di continuo pensare al possente e indimenticabile Cristo che esce dal sepolcro, l’affresco che Piero della Francesca eseguì tra il 1463 e il 1465 per il Palazzo dei Conservatori della sua città, Sansepolcro, «il più bel dipinto del mondo», come l’aveva definito lo scrittore inglese Aldous Huxley.

Foto di copertina: Santi Basilio Magno e Gregorio di Nazianzeno

  • Raffaele Vertucci

    Nato nella provincia di Salerno nel 1975, si laurea nel 1998 in Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Perugia con una tesi di laurea dal titolo Il fondamento etico nel pensiero di Albert Schweitzer: il rispetto per la vita. Sviluppa intanto dei temi legati alla non violenza e ad Aldo Capitini attraverso delle pubblicazioni, per poi concentrarsi più propriamente – grazie al prof. Edoardo Mirri e al Prof. Marco Moschini dell’Università di Perugia – allo studio del filosofo italiano Teodorico Moretti-Costanzi e al suo rapporto con Spinoza, i Padri della Chiesa, tra cui Giustino e il pensiero di San Bonaventura da Bagnoregio. Consegue nel 2008 con il summa cum laude il Dottorato di Ricerca di Filosofia presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, con una dissertazione dal titolo: Sapienza, amore, verità: il pensare di san Giovanni della Croce: un mistico-filosofo, un filosofo-mistico, pubblicata dalla stessa Università nel 2010. È stato componente la Redazione di Perugia della rivista filosofica-politica-pedagogica Prospettiva Persona, con sede a Teramo (presidente del Comitato scientifico P. Ricoeur) ed è attualmente componente il gruppo di Ricerca della Fondazione “Siro Moretti-Costanzi” dell’Università degli Studi di Perugia, attraverso cui continua lo studio della Mistica e del suo rapporto con la Patristica e la Filosofia.