RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Un cenacolo filosofico nell’antica Roma, testo di Ezio Albrile

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Porta Maggiore, Roma (Wikimedia Commons)

     

     Il 21 aprile 1917 una voragine si aprì sotto un binario della linea Roma-Napoli, nei pressi di Porta Maggiore: la frana riportò alla luce una basilica sotterranea a tre navate, di cui la centrale terminava in un’abside semicircolare. Gli archeologi stabilirono che i muri perimetrali ed i pilastri erano stati ottenuti scavando prima il terreno secondo le forme e profondità volute, e poi riempendo gli scavi di malta e calce; il tempio era stato successivamente vuotato di tutta la terra attraverso un ampio foro adattato in ultimo a lucernaio; il pavimento della parte centrale veniva così investito dalla luce che cadeva dall’alto. L’aspetto più sorprendente della basilica sta nell’ospitare un gran numero di stucchi, al tempo perfettamente conservati, evocanti alcuni temi fondamentali della mitologia greca.

     Nella prima comunicazione che della scoperta venne data al mondo scientifico, avanzò con molta prudenza l’ipotesi che il monumento fosse stato adibito al culto di qualche cerchia misterica. Nel 1923 lo storico ed archeologo francese Jérôme Carcopino dimostrò l’appartenenza della basilica ad una cerchia neopitagorica. Il Carcopino, con una buona dose di fortuna, si era imbattuto in un passo poco conosciuto di Plinio il Vecchio, là dove si accennava ad una certa erba che aveva la proprietà di rendere irresistibile all’altro sesso chiunque riuscisse a scovarla nelle campagne: cosa che nel mito capitò a Faone, e la povera Saffo, innamoratasi perdutamente di lui senza esserne corrisposta, si uccise lanciandosi dal promontorio di Leucade. Ora, dice Plinio, «a ciò credevano non solo quelli che si interessavano di magia, ma anche i Pitagorici» (Nat. hist. 22, 9). L’episodio di Saffo fa parte degli stucchi della basilica, ed occupa anzi una posizione predominante: tutta la parte superiore dell’abside semicircolare.

     Accertata dunque l’appartenenza del monumento alla cerchia neopitagorica romana, e fattane risalire la costruzione al I secolo d.C., l’attività degli studiosi ha potuto stabilire ben poco altro; solo Goffredo Bendinelli, archeologo e storico dell’arte, in un’erudita monografia, sostenne che la basilica fosse un grande sepolcreto per una élite ristretta di aristocratici.

Stucchi raffiguranti cerimonie rituali nella Basilica sotterranea di Porta Maggiore, sede di misteri pitagorici dell’età romana (I sec.) – (Wikimedia Commons)

     Gli stucchi ovviamente non avevano soltanto una funzione ornamentale, ma, trovandosi in un luogo di raccoglimento e di meditazione, rinviavano a un significato recondito: dovevano ispirare a chi li contemplasse un certo dramma, una certa ritualità, una specifica visione dell’esistenza umana. Se la basilica apparteneva a un tiaso neopitagorico, la ovvia chiave di interpretazione proveniva certamente dal pensiero pitagorico, soprattutto in riferimento al modo di concepire la vita e la condizione dell’uomo.

     Pitagora nacque nell’isola di Samo intorno al 571 a.C. Le peregrinazioni infere di Pitagora erano parte significativa del suo insegnamento; così pure gli interessi per la mantica, la chiaroveggenza, la telepatia, tutti aspetti che nel corso del tempo contribuirono a creare un’aura di irrazionale sacertà attorno alla scuola, mutandone gli intenti originari. Quando il pitagorismo si riproporrà a Roma, secoli più tardi, la trasformazione sarà definitiva, i sogni e gli intenti visionari del maestro mutati forse in mercimonio, oppure in trastulli per cerchie sedicentemente misteriche.

     Pitagora nel mondo antico era noto quale maestro delle estasi visionarie: l’agrigentino Empedocle parlava di Pitagora come di un uomo dal sapere prodigioso, che acquisì una grandissima ricchezza di  prapides, un vocabolo greco che può essere tradotto con «diaframma-pensiero», (M. Detienne, s.v. «Demoni», in Enciclopedia Einaudi, IV, Torino 1978, p. 564), e divenne capace di atti sapienti di ogni specie. Infatti, continua l’agrigentino, quando Pitagora tendeva come un arco tutte le parti del suo prapides, poteva facilmente contemplare ogni parte della realtà visibile e invisibile. L’espressione «tendere il proprio diaframma»,  che significa anche «tendere il proprio pensiero», alludeva verisimilmente a una tecnica di tipo yogico che permetteva di controllare la respirazione e di fare del diaframma l’«arco» in cui il soffio, concepito come un dardo o una «freccia», fuoriusciva dal corpo. Il soffio, quale freccia tesa sull’arco, era il fulcro in cui si concentravano le forze disperse dell’anima, la parte divina racchiusa nell’uomo: ciò permetteva di fissare quest’ultima in un punto fisiologico del corpo, il diaframma, e di «scoccarla» separandola dal corpo attraverso la pratica dell’estasi. Chi pratica yoga sa che il respiro e il suo controllo sono alla base di ogni esperienza meditativa che conduca verso un nuovo e più elevato piano di coscienza.

 

Busto di Pitagora. Copia romana di originale greco. Musei Capitolini , Roma (Wikimedia Commons)

     L’ascetismo visionario «pitagorico» era testimoniato nel Fedone platonico, secondo cui il purificarsi era «adoperarsi in ogni modo di tenere separata l’anima dal corpo e abituarla a raccogliersi e racchiudersi in se stessa, fuori da ogni elemento corporeo, ed a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione dal corpo come da catene» (Phaed. 67 c-d). I poteri dei maestri della cerchia pitagorica consistevano quindi nel far uscire l’anima dal corpo e nel farvela rientrare nuovamente.

     Secondo verisimili ricostruzioni, Pitagora era profondamente convinto che il cammino verso la perfezione non avesse limiti per l’uomo. Riconosceva che la strada era irta di ostacoli, ma sottolineava l’esistenza di alcuni fattori che dipendevano solo da noi stessi. Per diventare artefici del proprio destino bisognava rendersi consapevoli di tali fattori, e, nel contempo, neutralizzare quelli nocivi, indipendenti dalla nostra volontà. Gli studiosi si sono sempre trovati d’accordo nel ritenere che la paideia impartita da Pitagora avesse lo scopo di formare uomini superiori. Ma qual era questo ideale di perfezione? Sappiamo da Aristotele che i Pitagorici sostenevano l’esistenza di tre esseri razionali: Dio, l’uomo e l’uomo pitagorico, quest’ultimo intermediario fra Dio e l’uomo. Compito dell’uomo era tendere verso Dio. Si trattava quindi di un vero e proprio ‘superamento’ della condizione umana, conseguibile attraverso un particolare bios, un regime di vita, regime che mirava a potenziare, trasformare, glorificare corpo ed anima. Un altro momento centrale nel pensiero pitagorico era la metempsicosi: l’anima, prima di giungere una volta per sempre alla divinità, doveva sottostare ad un certo numero di prove, ed ogni vita trasmetteva i suoi effetti ad una vita successiva, che era migliore o peggiore a seconda di quel che aveva precedentemente meritato. Secondo la metempsicosi la vita subiva un divenire ciclico, nel senso che l’anima era naturalmente protesa al ritorno verso il luogo originario. In un frammento pitagorico si narra di come un tizio, per liberarsi dal suo creditore, ricorresse ad alcuni argomenti filosofici: «… così, vedi, sono anche gli uomini. L’uno cresce, l’altro sale: in mutamento siam tutti, per tutto il tempo. Dunque: quello che muta per natura e mai resta nel medesimo stato, mi sembra che sia già per essere diverso dal mutato. Anche tu ed io siamo altri oggi da quelli di ieri, e altri saremo in futuro né mai i medesimi, secondo identica legge…».

 

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene-Pitagora, affresco, Palazzi Pontifici, Vaticano – (Wikimedia Commons)

     La mutazione è quindi base della trasformazione e della progressiva presa di coscienza dell’uomo sottoposto all’avvicendarsi ciclico della reincarnazione. Una tradizione vuole che Pitagora stesso riuscì a conseguire la «rinascita» o meglio la «rigenerazione», la palingenesia, dopo aver svelato lo arithmos, il «numero» che governa le metempsicosi, cioè il numero psicogonico corrispondente a 6. Secondo gli insegnamenti pitagorici, infatti, le trasmigrazioni di Pitagora all’interno dei cicli cosmici durarono 216 anni; dopo questo tempo egli conseguì la palingenesi, poiché aveva compreso il segreto del «cubo psicogonico» (psychogonikou kybou), che numericamente corrispondeva al 6 – cioè ai sei lati del cubo –, e che ruotando sfericamente si riposizionava generando di volta in volta una nuova vita. La conoscenza del meccanismo armonico vincolante l’anima al ciclo del divenire conduceva a una liberazione, un sottrarsi alla legge cosmica che legava i più al mondo e alle trasmigrazioni.

     Alcuni studiosi ritengono che tale teoria del numero sia balenata a Pitagora durante i suoi esperimenti nel campo dell’acustica. Servendosi di un monocordo, egli era giunto a scoprire il rapporto che passava fra l’altezza del suono e la lunghezza della corda: deducendo da tale fenomeno una certa espressione numerica, si accorse che questa, allo stato delle conoscenze di allora, poteva applicarsi a tutti i fenomeni naturali. Da ciò concluse che l’elemento primordiale di tutte le cose fisiche, come pure delle entità ideali, fosse il numero; che venne così a identificarsi con il ‘principio’ lungamente cercato da tutte le filosofie precedenti. L’uno, o monade, era dunque il primo principio. Dall’uno si generava la diade, poi la triade, portentoso simbolo della divinità. Simbolo geometrico della triade era il triangolo. La tetrade era invece ritenuta l’origine della eterna natura.

 

Basilica sotterranea di Porta Maggiore, Stucchi-Oggetti rituali (Wikimedia Commons)

     Sulla scorta del libro del Carcopino troviamo questi insegnamenti figurati negli stucchi della Basilica romana, uno di essi rappresenta l’incontro tra Eracle e Atena, accostamento rarissimo nelle raffigurazioni mitologiche. L’eroe si avvicina solenne alla dea, pende dalle sue spalle la pelle leonina ed in mano reca la clava. Eracle, se vuole conquistare l’immortalità, dovrà subire un processo di trasformazione attraverso le dodici ‘fatiche’, che dovrà compiere per volontà di Euristeo. Euristeo è il tipo mediocre per eccellenza; non ha nulla di eroico, di forte, di intelligente, nulla che possa giustificare la sua posizione sociale. È la banalità personificata, attenta soltanto al proprio benessere individuale; negli altri non vede che gli strumenti per la realizzazione dei propri interessi. È l’uomo delle convenzioni, l’uomo che difende le strutture sociali, pandemiche; a ragione del suo mediocre essere, del suo scarso talento e del suo minimo valore, possiede i beni del mondo ed il potere. Ed Eracle  deve piegarsi di fronte al meschino Euristeo, del quale sente l’indubbia inferiorità. Quando apprende che dovrà compiere le dodici imprese, l’eroe cade nello sconforto: non perché tema la lotta, ma perché costretto ad una profonda umiliazione; egli deve rapportarsi alla sua parte ‘oscura’, accettare di ‘mortificarsi’ per poi rinascere. La sua è una specie di ‘morte rituale’, e ciò prima di affrontare il processo di trasformazione attraverso le ‘fatiche’.

     La femminilità e i suoi miti imperano negli stucchi ipogei. Prendiamo il mito di Giasone. Alla guida di un nutrito stuolo di eroi, gli Argonauti, Giasone salpò alla conquista di un oggetto portentoso, il Vello d’oro. Il Vello d’oro era la pelle di un Ariete dai poteri magici, figlio di Posidone, che attraverso alterne vicende giunse in Colchide. Sacrificato a Zeus, il suo soffice e aureo manto venne donato al re della Colchide Eeta, che l’appese ad una quercia nel giardino sacro ad Ares, custodito da un Drago insonne. Grazie ai balsami di Medea e alla sua «schiuma lunare», Giasone riuscì ad impadronirsi dell’anelato Vello, conseguimento che a suo modo rappresentò lo stigma della futura rovina.

 

Basilica sotterranea di Porta Maggiore, Atrium-Stucco (Wikimedia Commons)

     La donna che gli è vicina nello stucco è Medea, sorella di Circe, altra potentissima maga, entrambe profonde conoscitrici di erbe e piante, ingredienti per esiziali pozioni. Ed è proprio grazie a tali intrugli narcotici che Giasone riuscì ad afferrare l’anelato Vello, segno di un potere acquisito sul tutto; si ricordi che il punto iniziale dello Zodiaco (e quindi dell’anno) è fissato al grado zero dell’Ariete. Il moto del Sole, della Luna e dei Pianeti al suo interno crea i presupposti per una biopolitica la cui importanza è pienamente condivisa dalla cultura antica, come chiaramente esplicitato nel cosiddetto «oroscopo del mondo», il thema mundi. Ma il trono ottenuto da Giasone dipende dal potere di Medea, un’evidenza che presto egli scorderà. Il mito è chiaro in proposito: il tradimento di Giasone ne sancirà la rovina e, di riflesso, l’apoteosi di Medea. Il potere è un oggetto sfuggente come il Vello, lo si insegue bramandolo, ma poi fatalmente sfugge: era capitato a Pitagora e ai suoi discepoli a Crotone, e poi ad Archita, ‘autocrate’ tarantino e manipolatore di Platone nella infelice esperienza siracusana; e forse anche agli adepti afferenti al tiaso neopitagorico della basilica di Porta Maggiore. Un appropriato esempio iconologico, risalente a tanto tempo dopo, è rappresentato da un manufatto tuttora esistente nella città di Roma, la cosiddetta «Porta magica», edificata dal marchese Massimiliano Palombara (1614-1685), un nobile romano, studioso di dottrine ermetico-alchemiche, che nel 1680 la fece collocare a un ingresso secondario della propria villa sull’Esquilino. Sull’architrave di questa «soglia alchemica» troviamo un fregio circolare volto intorno alla «Stella ermetica»; sul vertice inferiore del primo triangolo poggia un cerchio sormontato da una croce, nel quale si trova la scritta centrum in trigono centri, enigmatica espressione che si spiega forse con l’idea, ben nota nel mondo antico e trascritta anche da Clemente Alessandrino, di un Dio concepito come «cuore dell’universo», al centro delle sei estensioni infinite del cosmo.

 

Porta magica in Piazza Vittorio Emanuele, a Roma (Wikimedia Commons)

     Secondo i biografi, il Palombara avrebbe tratto l’ispirazione del fregio, se non proprio il fregio in toto, da un testo di alchimia, l’Aureum seculum redivivum (Francoforte 1625 [poi 1677]) di Hinricus Madathanus, pseudonimo di Adrien von Mynsicht. Ma il simbolo ha una storia complessa, legata alle vicende del tempo eternamente rinnovantesi. Non a caso il Palombara fa esplicito riferimento alle vicende degli Argonauti in diversi parti della sua opera; egli aveva forse in mente anche gli unici versi virgiliani che celebrano la nave Argo come «prima nave» che pone fine all’aurea aetas, secondo una tradizione risalente ad Esiodo. L’intento di celebrare il ritorno di una nuova età aurea sembra palese nel prospettare la soglia ermetica quale custode del Vello d’oro: horti magici ingressum hesperius custodit Draco et sine Alcide Colchicas delicias non gustasse Iason. È la scritta che appare incisa per esteso sull’architrave sotto il frontone, che tradotta suona più o meno così: «L’ingresso dell’orto magico è custodito dal Dragone di ponente; e senza Ercole, Giasone non avrebbe gustato le delizie della Colchide». Troviamo in questo enigma un palese riferimento zodiacale: nel Dragone di ponente è ravvisabile la costellazione della Bilancia, qui intesa come porta equinoziale (all’equinozio d’autunno) e ianua inferi, con Ercole quale iniziatore del ciclo cosmico. Un rinnovamento quindi non solo ‘spirituale’ ma dalle finalità marcatamente biopolitiche.


Immagine di copertina
La “Porta Magica” (Roma, Piazza Vittorio Emanuele) – Wikimedia Commons

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Letture consigliate

Jérôme Carcopino, La basilica pitagorica di Porta Maggiore (Il flauto magico, 49), a cura di Guido Boni, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 290 (XXIV tav.), Euro 25,00
Ezio Albrile, Misteri pagani, mistero cristiano, Mimesis, Milano-Udine 2019
Walter Burkert, La creazione del sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa (Il ramo d’oro, 42), trad. di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 20042
Mino Gabriele, La Porta Magica di Roma simbolo dell’alchimia occidentale (Biblioteca dell’«Archivum Romanicum» – Serie I: Storia, Letteratura, Paleografia, 444), Olschki, Firenze 2015
Augusto Rostagni, Il verbo di Pitagora, Victrix, Forlì  2005
Christoph Riedweg, Pitagora. Vita, dottrina e influenza, trad. a cura di Maria Luisa Gatti, Vita e Pensiero, Milano 2007
Salvatore Settis (a cura di), I Greci oltre la Grecia = I Greci. Storia, cultura, arte, Volume 3, Einaudi, Torino 2001.

Video
Pitagora, con interventi di Walter Burkert, Marcel Detienne, Giovanni Pugliese Carratelli, regia di Roberto Perpignani, consulenza scientifica: Giuseppe Orsi, Claudio Rugafiori, musiche: Federico Laterza (Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, Philosophia. Il cammino del pensiero, 2), Rai Trade, 2010.

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Ezio Albrile si occupa ormai da decenni di storia e antropologia religiosa, con specifica attenzione ai rapporti interattivi fra la cultura ellenistica e le religioni dell’Iran antico (preislamico). Numerosi sono i suoi contributi riguardanti le molteplici espressioni del dualismo antico (orfismo, gnosticismo, etc.). Ha dedicato numerosi lavori alle interazioni tra mondo orientale e fenomeni «misterici» come lo gnosticismo e l’ermetismo. Ha curato e tradotto diverse opere tra cui il De radiis, di al-Kindī (Mimesis, 1994) e il Commentario di Olimpiodoro all’alchimista Zosimo (Mimesis, 2008), e pubblicato numerosi saggi. Tra le recenti cose pubblicate c’è un saggio sullo Gnosticismo. Una religione per il futuro (WriteUp, 2021), e una nuova traduzione commentata del Vangelo di Verità, uno dei più rilevanti testi gnostici della biblioteca di Nag Hammadi. Da segnalare i suoi ultimi libri sulle interazioni tra gnosticismo e letteratura: Fantascienza e gnosticismo. Realtà alternative e mondi paralleli tra antico e moderno (Jouvence, 2022); Abissi dal futuro. Fantascienza e mitologie gnostiche (Nexus, 2022).

 

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