RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Parasite: l’Oscar coreano in abiti occidentali, commento critico di Elena Furlanetto

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Dopo aver visto Parasite, mia madre mi scrisse: “se fosse stato un film americano, sarebbe stato molto piú violento”.1 Memore di Oldboy, ineguagliato film del 2003 di Park Chan-wook, dove Choi Min-sik estrae i denti ad un malcapitato con un piede di porco, la cosa mi parve sospetta, quasi quanto il fatto che mia madre pensi che in un film ci sia margine per più violenza. Nel 2013 il rifacimento hollywoodiano di Oldboy firmato Spike Lee presentò una versione bonificata del film, dove la gestione delle fondamenta narrative dell’originale, tortura e incesto, e di altre peculiarità che fanno di Oldboy uno psicopatico capolavoro sembrava essere passata in mano ad un team di padri pellegrini. Mi domandavo come fosse possibile che un film coreano mancasse di violenza, fisica o psicologica. La conferma venne dalla visione del film: Parasite è il cinema coreano nel suo vestito della domenica, capelli pettinati all’indietro, mani in grembo, mentre i miei pensieri andavano nostalgici a Choi Min-sik e al piede di porco di cui sopra.

Negli ultimi due decenni il cinema coreano è stato oggetto di una rinascita senza paragoni, producendo un flusso di film destinati a lasciare il segno perfino nella storia del cinema occidentale (come le filmografie di Kim Ki-duk o Bong Joon-ho), a diventare dei cult istantanei (la trilogia della vendetta di Park Chan-wook o Train to Busan, 2016) o a impartire lezioni di stile, (The Handmaiden, 2016, Burning, 2018). Nonostante i numerosi premi vinti da film coreani in passato, dalle Palme agli Orsi e ai Bafta, Parasite rimarrà nella storia per aver vinto non solo un Oscar come miglior film straniero, ma anche miglior film, premio finora riservato a produzioni americane (come anche miglior regia e miglior sceneggiatura originale). Vincere entrambi è una contraddizione in termini. La vittoria di Parasite non va ad un solo film, ma è un riconoscimento ad un intero cinema nazionale e alle altezze siderali che ha raggiunto, nonché un momento di svolta nella cinematografia mondiale.2


Una svolta che prova, scrive Roberto Saviano su Repubblica, “che un prodotto culturale può non parlare la lingua inglese e riuscire comunque a conquistare l’immaginario del pianeta”, in qualche mondo equiparando l’immaginario del pianeta alla giuria dell’Academy. Trionfalismi a parte, questo riconoscimento, del tutto meritato, è in ritardo di almeno dieci anni: perché non c’erano dubbi che la Corea avesse conquistato l’“immaginario del pianeta”, quello che mancava era la beatificazione. E giustamente Parasite, aspirando alla beatificazione, ha dovuto promettere di comportarsi bene. Niente incesti, niente tabù, poca violenza solo vagamente eccentrica, nessuno che ingerisca polipi vivi, molto plot e pochi silenzi. Nel simpatico articolo “Perché Hollywood non capisce il cinema coreano” su The Guardian, Steve Rose elenca una serie di componenti che rendono difficile la digestione di molti seppur bellissimi film. Elenca la creatività delle armi del delitto, le trame squilibrate, la fluidità di genere, i menù variegati, le ambizioni epiche. Tutto ciò, scrive Rose, manca nei frequenti adattamenti americani di trame coreane. Il rifacimento di Oldboy del 2013 è la prova eclatante che “Koreans do it better”. Anche Parasite diventerà una miniserie HBO, e si accettano scommesse su cosa verrà censurato. La mia ipotesi: non molto.

Parasite conserva alcuni importanti tratti del cinema coreano, tra tutti, l’impenitente indifferenza ai generi del cinema occidentale.3 L’inizio da commedia vede la famiglia Kim infiltrarsi nella vita e nella villa della ben più ricca famiglia Park. Seguiamo con un piacere colpevole gli stratagemmi con cui Ki-woo, il figlio maggiore (Choi Woo-shik) si sostituisce all’insegnante di ripetizioni della figlia di Park, il padre Ki-taek (Song Kang-ho) all’autista, e la figlia Ki-jeong (Park So-dam) si improvvisa insegnante d’arte per il prodigioso figlio. Le atmosfere sono comiche, finché non lo sono più. La violenza, pur sottile, si intensifica, i sorrisi del pubblico si spengono, finché una notte l’ex-governante, al servizio della famiglia Park da decenni (Lee Jeong-eun, meravigliosa anche nella serie TV Mr Sunshine) e spodestata dalla signora Kim (Jang Hye-jin), ritorna alla casa con un segreto, e nulla è più come prima. La scena in cui la telecamera segue i protagonisti lungo un tunnel sotterraneo ci trasporta letteralmente in un altro livello dove si svolge un film diverso, un thriller buio con memorabili momenti horror. Generi a parte, c’è molto, troppo occidente in Parasite. Un misto di conformismo e ribellione verso il canone hollywoodiano definisce la cifra stilistica del regista Bong Joon-ho, già autore di Memories of Murder (2003), Mother (2009), e Snowpiercer (2013),4 ma Parasite strizza l’occhio all’America in un modo che non si percepisce come particolarmente critico, forse neppure ambivalente.

Lo stile di vita fortemente occidentale dei Park è splendido oggetto d’invidia piuttosto che di disapprovazione. L’intercalare in inglese della signora Park, il figlio ossessionato dai Nativi americani che gioca per casa con frecce vere fatte arrivare dall’America e altri richiami sono critiche alla Corea globalizzata più che stoccate all’America. La patetica messinscena in cui Park coinvolge l’autista Ki-taek per la festa del compleanno del figlio, obbligandolo a travestirsi da Indiano, racconta l’umiliazione e lo squallore sofferti da Ki-taek in quanto sottoposto, una posizione che Ki-taek riuscirà a tollerare ancora per pochi minuti. Mentre l’appropriazione della cultura Nativo-americana per scopi di intrattenimento offre l’occasione per un affondo magistrale, Parasite lascia correre e non approfondisce, accontentandosi di strizzare vagamente l’occhio all’America.

Parlare di autenticità culturale in un mondo globalizzato è inutile e forse dannoso, come lo è cercare di separare la materia hollywoodiana da quella locale in qualsiasi cinema nazionale. Ma da vent’anni il cinema coreano riempie i vuoti del cinema occidentale e risponde al bisogno (senz’altro il mio) di trame meno lineari, di interazioni tra poesia e violenza, di oltrepassare i limiti. Film come Oldboy e la trilogia della vendetta di Park Chan-wook, The Host (2006), Mother (2009), Ferro3 (2004), Burning (2018), hanno regalato delle gradite interruzioni al canone della narrativa occidentale. Invece del familiare tracciato attraverso situazioni iniziali, sviluppi, climax, e dénouement, lo storytelling coreano è il silenzio che precede la rivelazione.

Note

1. Oltre a mia madre, ringrazio Marco Simion e Phillip Grider per le conversazioni che hanno ispirato questo articolo
2.  Bicker, Laura. “Parasite: What the Oscar win means for Korean cinema.” BBC News, 11 Febbraio  2020 https://www.bbc.com/news/world-asia-51449513
3. Steve Rose. “Why Hollywood doesn’t get South Korean cinema.” The Guardian, 29 Novembre 2013. https://www.theguardian.com/film/2013/nov/29/old-boy-remake-south-korea-cinema

4. Clinton Stamatovich, “A Brief History of Korean Cinema, Part Three: Hollywood Influence”. Hapskorea.com, 9 dicembre, 2014. https://www.hapskorea.com/brief-history-korean-cinema-part-three-hollywood-influence/

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Elena Furlanetto, nata a Treviso, vive a Essen, in Germania, dove insegna letteratura e cultura americana all’Universitá di Duisburg-Essen. È autrice di Towards Turkish American Literature, Narratives of Multiculturalism in Post-Imperial Turkey (2017) e di svariati articoli sulle letterature americane e postcoloniali; ha inoltre curato una raccolta di saggi dal titolo A Poetics of Neurosis (2018). Americanista di fatto e postcolonialista di formazione, apprezza soprattutto libri e film che parlino d’America, ma anche d’altro(ve). Il cinema le dà grande gioia, soprattutto l’horror. Le sue poesie in italiano ed inglese sono apparse in pubblicazioni italiane ed internazionali. Collabora con Finnegans in veste di traduttrice e critica cinematografica dal 2011.

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