RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Chiaro Scuro / Interviste sul presente di Delilah Gutman – Maria Micozzi, dentro l’arte che connette per differenze

[Tempo di Lettura: 14 minuti]
Maria Micozzi e Delilah Gutman nello studio di Maria. ph HG Studios

 

DELILAH Ascolto un silenzio simile al tempo che accompagna la lettura di un libro, quando entro nel portone di Via Giovanni da Cermenate, a Milano. Scendo delle scale e Maria Micozzi mi accoglie nel suo studio, tra le sue opere, in cerca di parole.

Ho conosciuto Maria nel 1997, in occasione della sua mostra “La seduzione/Ossessione e paura nei trattati degli inquisitori” sul margine del confine tra l’Emilia Romagna e le Marche, presso la Rocca Malatestiana di Montefiore Conca.
Del catalogo pubblicato per l’evento, le note a cura di Gian Paolo Lai descrivono il processo di un percorso proprio anche dei progetti che seguiranno: «La sperimentazione altera e solitaria di Maria Micozzi sulla paura, la seduzione, l’intolleranza, le relazioni infinite, continua e raggiunge le forme più alte e più pure (…)».  Momento di quel lavoro fu il contesto storico costituito dalla caccia alle streghe e il “Malleus maleficarum” (primo e più importante Corpus di norme sulla stregoneria), attraverso cui Maria presentò attraverso le oltre cento opere allestite tra le antiche mura della rocca quattrocentesca una “metafora” e una “teoria”.
Dove si annida la radice della tua ricerca, Maria, che già esplorava il tema del cambiamento?

MARIA Il cambiamento, nell’ambito della nostra società, può avvenire solo dall’esterno, in un certo senso. Occorre elaborare una coscienza dei postulati e degli assiomi che determinano e reggono l’impianto deduttivo, per scoprire un nuovo contesto alle premesse della nostra storia culturale. Da piccola avevo provato un’impressione molto forte nel gioco. Infatti, giocavo sempre con qualcosa che fosse un gioco e allo stesso tempo un “non gioco”. Piantavo i fagioli nei vasi dei gerani perché potessero vivere colorati e belli senza la guerra – sono nata nel 1939, proprio agli inizi della guerra. Ero bambina, ma avevo una chiara coscienza della logicità connessa agli eventi e dell’incongruenza in essi manifesti. Era per me una questione legata alla giustizia, che esplorai successivamente nella ricerca artistica e spirituale: perché fosse positiva e ricca nella profondità di una via percorsa, essa necessitava delle differenze. Quando in una cultura si divide in due il bene e il male, vi è metaforicamente un “Re” che attua la divisione prima ancora di una legge, prima ancora che sia la popolazione ad indirizzarsi nei confronti di questi due aspetti, etici oppure logici. In tal caso, la cultura segue un processo di ubbidienza e disubbidienza, poiché la scelta è a priori e l’individuo si trova nella condizione di dover scegliere tra due condizioni precostituite. Allora, le differenze vengono drammaticamente allontanate e cancellate. Così, viene impedito quel processo di ricerca. Senza differenze si attua il crollo di una cultura. Di conseguenza una crisi nella società.

 

La via del cambiamento, 2021, acrilico su tela libera

In che modo “La seduzione/Ossessione e paura nei trattati degli inquisitori” già indicava una via d’uscita dal Malleus quale metafora di una via d’uscita da tutte quelle condizioni che si ascrivono alle categorie della verità – dove si evitano le differenze per un’uguaglianza che è appiattimento delle identità – e non delle ipotesi, quali opportunità di stare in un processo che sia anche un percorso di crescita? 

Uscire dal Malleus e da tutti i “martelli” di questo tipo, comporta un nostro sforzo, quello di considerare l’espressione Bene-Male nella sua interezza: non togliere mai l’attenzione dal trattino e, anziché liquidarlo come intervallo di separazione, coglierne il senso di relazione, dove la stessa relazione sta per indicare le diverse possibilità di rapporti possibili. E il contesto restituisce senso al rapporto considerato.

 

Didone, 2021, acrilico su tela non preparata, mdf e carte, cm 210×100 circa (installazione)

Allora, a conclusione della “teoria” pubblicasti un pensiero oggi estremamente attuale: «Ogni inquisitore potrebbe interrogarsi sul contesto che conferisce senso al proprio giudizio e potrebbe concludere che il suo non è il contesto assoluto di dio». L’inquisitore cerca le differenze per eliminarne la sorgente. La riflessione sulla necessità di conoscere e abitare le differenze ha accompagnato i tuoi più recenti progetti. In che modo? 

Tra i lavori degli ultimi anni, avevo elaborato una pièce per dei bambini con la sindrome di Down.

 Leopardi sulla luna” è il titolo della piéce teatrale a cui accenni?

Sì. A suscitare la scrittura teatrale fu la loro comunicazione, si sentivano diversi e in questa sensazione percepivano una forma di disagio. Decisi dunque di affrontare con loro il tema della diversità e dell’accoglienza delle differenze, necessarie per la nascita di qualsiasi dialogo: una cultura che connette per uguaglianze e non per differenze genera una malattia.
In quest’opera, dedicata allo stesso Leopardi – poeta che si sentì non compreso ed escluso per il suo pensiero, in quanto non coincideva con quello di un certo sentire comune – avevo descritto un bambino che si rifugiava nel cervello per osservarne la struttura e le dinamiche, e capire cosa succedesse quando le persone guardavano ad un fiore, a cui nessuno voleva più bene: il cervello era un continuo fluire di lampi e luci di connessioni, poiché tutto era connesso, sebbene l’esistenza della singolarità di ogni sua parte… la lingua parlava all’orecchio, l’orecchio rispondeva con un pensiero e così via!
Le differenze conducono ad una sinergia e ad una conoscenza sempre più profonda, poiché non possiamo definire dove inizi e finisca una differenza. Se elabori una connessione sulla base delle uguaglianze non fai che dividere una stessa torta, spezzettandola e riducendo una relazione in frantumi. Viviamo in una cultura che si è sviluppata intorno agli scarti di uguaglianza, e fotografia di essa è l’attuale politica: somiglianze discordanti.

 

Maria Micozzi, ph HG Studios

Possono le differenze trovare espressione in un percorso sincretico attraverso i linguaggi – dal visivo al sonoro, dal simbolico al religioso? 

Se il sincretismo emerge come sintesi, esso uccide tutto perché il linguaggio viene a sviluppare elementi che esistono a priori rispetto ad un processo creativo. Se, invece, la ricerca di un sincretismo si traduce in un’avventura – la cerchi facendo i passi – esso diventa altra cosa.

Come un processo improvvisativo, in movimento?

Io l’ho chiamato “senso”: il senso porta all’immagine e l’immagine all’idea che diventa logica, un racconto. Se torniamo all’esempio iniziale del “Re”, egli attribuisce un significato a priori senza cercarne il senso. Così si uccide la creatività, perchè il senso costituisce la porta che ci conduce all’immagine e al tempo che ne consegue. Quando parliamo, non diciamo tutto ciò che vorremmo esprimere.
La poesia è un andare a cercare tra le parole – ognuna inefficiente rispetto all’espressione totale. Missione della poesia è quello stare nel percorso che ti accompagna vicino a ciò che la parola vorrebbe significare nella sua integrità, che è poi quello che vorrebbe dire il poeta, dopo non averlo trovato nel vocabolario!
La mia ricerca ruota intorno a un’ipotesi.

 

Studio di Maria Micozzi, ph HG Studios

Come un liutaio che costruisce un violino pensando all’ipotesi di un suono. Che cosa intendi nella tua ricerca per “ipotesi”? 

Penso che, nascendo, ogni persona sia una domanda: non è formulata, perchè inizia a essere domanda nel cominciare a vivere. L’arte è la domanda primaria, come il bambino che cerca il seno della madre è una domanda. Un bambino che piange perchè vuole essere aiutato è una domanda. “Cos’è?” è la tensione entro cui si vive, non si vive un concetto. La tensione è una ricchezza piena di quel senso che va oltre la parola. Come canta il poeta in “Itaca”… 

La bellissima poesia di Konstantinos Kavafis, “Se ti metti in cammino alla volta di Itaca, / àugurati che il tragitto sia lungo, / carico di peripezie, pregno di esperienze. / Tùs Lèstrigonas che tùs Kiclopas / ton Thimomeno Poseidona mi fovase. / Non li troverai mai sulla tua strada, / se resta alto il pensiero, e un sentimento / elevato guida il tuo spirito e il  tuo corpo. Tùs Lestrigonas che tus Kiclopas, / ton agrio Poserdòna den tha sinantìsis, / an den tus kuvalìs mes tinpsixisu an i psixisu den tus stin enbròsu. / Con  che gioia arriverrai in porti mai visti prima… 

Per imparare da quelli che sanno… “Itaca” è fatta di bellezza dell’assenza. L’arte è una ricerca continua per conoscere l’inconoscibile.

 

Cleopatra, 2021, acrilico su tela libera non preparata, cm 83×76

Attraverso la tua arte – tanti sono i periodi della tua ricerca – in che modo manifestavi la consapevolezza di esplorare il principio che genera la domanda? 

Ero consapevole del viaggio attraverso la conoscenza. Quella domanda che “tende a” ci spinge a esplorare quei codici che ognuno ha dentro di sè – la possibilità di esprimersi del pittore, del poeta, del musicista. È un aspetto della comunicazione: esprimi un bisogno di conoscere. 

Tale bisogno riflette una necessità collettiva? 

Parlando, ascolti il tuo io, esprimi un “significarsi” all’altro. 

Le donne di Dante. La via del cambiamento” è il titolo di una mostra recente. È stata inaugurata per il settecentenario della morte di Dante Alighieri nel luglio 2021, alla Villa Reale di Monza. A quando risale la genesi di questa mostra? 

Risale al periodo del Covid, quando eravamo nel mezzo della pandemia.

Paolo e Francesca, 2021, acrilico su tela libera non preparata, cm 170×78

Oltre trenta opere e dipinti su tela libera – non intelaiata – che è stata ricavata da lenzuola, da te definite “antico rifugio simbolico di protezione”, di “covid memoria”. In che modo ti sei relazionata ai versi danteschi? 

Vivendo! È un periodo dove non sto lavorando sulla pittura. Vivendo cerco di fare una domanda. I primi momenti di nascondimenti, il rifiutarsi – il virus si è presentato a noi con un’arcaicità che ci ha impedito di capire le cose – esprimeva una paura difficile da localizzare. La paura è stata rifiutata da molti. La nostra cultura non accoglie la paura – “segno di bassi natali” come scriveva Virgilio – e ha prestato molta attenzione alla potenza con un forte senso del narcisismo. La paura non è stata quasi studiata, è materia di indagine dell’ultimo secolo.

Cleopatra, Medea, Francesca da Rimini, Didone, Eva, Beatrice, Santa Lucia: donne la cui identità richiama l’attualità dell’insegnamento dantesco, cioè l’importanza di capire l’errore per giungere alla “redenzione” del cambiamento. Ma, per capire e conoscere abbiamo la necessità di affrontare e andare oltre, o dentro, la paura – quel sentimento così temuto che ci fa affacciare al mistero e ha a che fare con quella frontiera tra ciò che è reale e ciò che è irreale.

Abbiamo paura di ciò che non conosciamo. E siamo più coraggiosi nei contesti che costruiamo. La paura, tra l’altro, è un momento intellettualmente importante, perchè è un segno di qualcosa di diverso da ciò che ci si aspetta: essa dovrebbe essere un incentivo alla conoscenza! Ma, se la prima direttiva di una cultura, di un contesto, è quella di fuggire dalla paura, allora non riusciremo a usare questa emozione per capire le cose. È andando incontro alla paura che posso scoprire se si tratta di qualcosa di comprensibile o incomprensibile. È sull’incomprensibile che si lega l’esperienza del coraggio. È qui che si cela il seme del narcisismo e della cattiveria; non comprendendo un pensiero si tende a distruggere l’altro che lo propone. Noi evitiamo il diverso, perchè non lo capiamo. La nostra cultura crea nuclei di uguaglianze, un processo all’indietro, verso ciò che si conosce, precludendo la via della conoscenza.

Aracne, 2021, acrilico su tela libera non preparata, cm 133×57

Il corpo umano rappresenta uno strumento importante nel tuo linguaggio pittorico. Quale valore simbolico veste in relazione alla paura? 

Le differenze. Nella via della conoscenza manca il nostro corpo: in esso nulla funziona se non per differenza!
Ad esempio, pensiamo al sodio e al potassio, sono elementi utili ai neuroni del nostro cervello e giungono dove devono arrivare per le differenze di potenziale tra i due stessi elementi!
Il principio dell’errore di fondo che sta contaminando la nostra società è basato sulla paura. Si regredisce, perchè la conoscenza è fatta per metà di scoperta, di cui non possiamo carpirne l’identità.

C’è una differenza, per te, tra rivelazione e conoscenza? 

Che cosa è la rivelazione? È un soggetto che ti dice qualcosa che tu non sai? O qualcosa che scopri? Rivelare conduce a evidenziare.
La rivelazione è un atteggiamento guidato. È un tuo procedere che si manifesta, successivamente, con un senso. La conoscenza è secondo me più libera, ipotetica, legata all’eventualità… in qualche modo poetica. Quando scrivi una poesia, tu stesso non riesci a cogliere la moltitudine di significati raccolti tra le parole.
Noi abbiamo di fronte l’infinito, scaviamo nell’infinito. La rivelazione può condurre a un’entità, la conoscenza no. La conoscenza ha sempre bisogno dell’altro.

Nelle arti, quando perseguo un’attitudine di conoscenza, l’opera che emerge interroga chi la guarda. 

E di conseguenza nulla viene escluso nella vita. Torniamo alla necessità di differenze. La troppa razionalità diventa irrazionalità, ecco perché nella ricerca di uguaglianze io percepisco una forma di ingiustizia. Se mi connetto al prossimo per uguaglianza, ignoro l’altro e posso vedere solo me, perché l’uguaglianza la posso trovare solo in me stessa. 

 

Erinni, 2021, acrilico su tela libera non preparata, cm 170×70

Altra cosa è il denominatore comune tra le differenze. 

Sì, ma è una differenza, sempre.
Nella narrazione della Genesi Dio crea un mondo invitando Adamo a dare un nome alle cose, il nome differenzia. E Adamo nomina le cose. La dicotomia, però, nasce quando viene capovolta la regalità – il potere del “Re” è definito e definibile – per cui l’albero che era simbolo di connessione tra cielo e terra diventa simbolo di disubbidienza, o la donna diventa simbolo di disordine. Nominando la materia si combatte il caos.

Si ripercorre un principio analogo nel processo creativo di un’opera d’arte. Nominare è anche un invito all’atto di creare? 

Sì, ma tale creazione dovrebbe essere rispettata in quanto non definitiva, mentre nella società che abitiamo, dove il potere comanda, l’arte diventa deterministica.
L’arte è la domanda primaria, la richiesta di interezza. È una realtà polimorfa sempre in mutamento che non fa altro che tirar fuori dalla persona questa materia non conosciuta. 

E come hai affermato prima, in relazione alla mostra dedicata a Dante, quando non utilizzi uno strumento – quando non si dipinge, o non si scrive, o non si suona – non significa che io abbia interrotto quel percorso di ricerca. 

Nella conoscenza del diverso noi conosciamo noi stessi, poiché in noi ci sono gli stessi cromosomi di un albero.
Noi siamo ricettori e produttori di senso in cerca di senso!
Quando durante la pandemia sentii la diffusione dell’ordine di mettersi al riparo, percepii in esso una formulazione collettiva di paura. Come se fosse stata la legge a imporre di aver paura. Questo concetto della paura, del pericolo, ha suscitato il percorso visivo ed espressivo della mostra dedicata a Dante, un ritorno a un sentire arcaico, un pericolo antico a cui non abbiamo dato ogni spiegazione. E la nostra risposta era nel rifugiarsi tra le lenzuola di casa, come un ritorno al grembo materno.
Allora, di notte, mi sono alzata, ho aperto l’armadio e ho iniziato a stracciare le lenzuola: il giorno dopo iniziai a dipingerle, per poi esporle tra il legno e il ferro alla Villa Reale di Monza, all’ultimo piano dove c’erano le stanze della servitù (e dopo la seconda guerra mondiale le sale di accoglienza dei fuggiaschi).
Una persona gioiosa può aver sofferto e una persona che ha sofferto può esser gioiosa, ma se condensiamo tutto appanniamo le cose.
Dovrei eliminare un giardino per abbellire la siepe? Non sono fatta di pezzi, ma di ricerca, come “un’auto-analisi,” che come dice Freud, non finisce mai!
Con disciplina, per un anno ho scritto senza leggermi. Poi, in seguito, ho iniziato a rileggermi per analizzare e comprendere la connessione tra gli eventi della mia vita. Le intuizioni sono figlie spesso di intuizioni rifiutate. Ho provato odio per i contraffattori di verità.

Taide, 2021, acrilico su tela libera non preparata, cm 170×38

Hai cercato te stessa? 

Sì. È importante aver cercato me stessa, senza aver voluto muovere l’altro. Ho affrontato un percorso difficile di conoscenza, di cui io ero l’oggetto. Non avevo paura di ciò che avrei potuto trovare. Consideravo già la diversità come bellezza, ma ho provato un grande male quando ho scoperto che ci si nascondeva e il nascondersi significa non darsi all’altro. È una tensione fluttuante e necessaria all’arte per poter andare verso qualcosa. Forse la musica rappresenta l’astrazione di piena libertà, ma anche il linguaggio sonoro invita a connettersi per lasciarsi liberi di essere attraversati dalla comunicazione. 

Le arti ci permettono di indagare nei livelli più profondi dell’anima il senso della vita. Ho sempre percepito nelle tue opere una riflessione sul corpo della donna, seppur attraversando tematiche differenti. Il corpo della donna può essere strumento per riflettere sulla giustizia, sui diritti, sui valori umani? 

Il corpo della donna ha in sè tutte le differenze possibili, di cui la donna non è sempre consapevole. La donna ha più livelli di conoscenza e di astrazione. Il cervello dell’uomo è più attento a cogliere gli elementi in uno spazio cartesiano. Il cervello della donna è più attento alle diversità dei linguaggi e delle decodifiche. La bellezza dell’essere umano dovrebbe essere nella differenza tra queste attitudini maschili e femminili.

Quali sono le relazioni che avvengono attraverso la percezione? 

Incontrando la dicotomia eliminiamo la capacità di conoscere noi stessi. Il cieco ha bisogno di toccare per conoscere i confini degli spazi circostanti. Il cambiamento non esiste se nell’assioma di partenza non abbiamo il diverso. La dicotomia non ti permette di scegliere. Il processo della scelta viene decapitato.
Mentre cerchiamo qualcosa di cui abbiamo il sentore, noi creiamo una memoria di noi.
Alla fine, il Maestro non ti dice la strada da percorrere.

Il Maestro ti invita a sceglierla. Come possiamo determinare una risposta nella cultura?

La cultura si cambia con l’esperienza che mettiamo dentro le nostre opere e le azioni del quotidiano.

Stai lavorando a un nuovo progetto?

Sto trasformando l’esperienza attraverso la mia malattia, il morbo di Parkinson, in un percorso di ricerca intorno al concetto di rallentamento.

 

Studio di Maria Micozzi, ph HG Studios

 

Saluto Maria con un abbraccio, mentre discutiamo dei contenuti della bozza di un suo libro, “Frantumi”: « (…) L’Arte, prima di essere Arte è progetto di vita e Armonia dell’Intero. Solo quando diventa senso della Mente e delle sue forme, essa entra nella  bellezza e nelle   divine proporzioni. Ma, quando il linguaggio della storia si frantuma, anche l’Arte smarrisce il senso della propria anima».

 

***

 

Biografia artistica di Maria Micozzi a cura di Carla Galimberti

Intellettuale di formazione sia classica che scientifica, lavora su molteplici interessi: dall’antropologia alla psicoanalisi, all’epistemologia dei sistemi complessi di Prigogine e Morin.
La relazione, nella sua natura necessaria e universale, è il cuore del pensiero stesso della Micozzi.
Il critico e filosofo Giuseppe Vannucci scrive: ”Nella sua opera orientata ad una visione sistemica del mondo, nella concezione “relazionale” di Gregory Bateson, la dimensione fantastica scaturisce dalla complessità labirintica delle infinite relazioni possibili, geometrico-matematiche, mnestiche o simboliche tra gli elementi di un tutto che, nella visione organicistica di Maria Micozzi, si traduce nel mito femminino della grande madre cosmica attraverso la forza sinuosa ed erotica dei suoi acefali corpi femminili. In questo suo anelito alla ricomposizione formale della totalità attraverso la compresenza e la ‘ricucitura’, nelle sue opere di frammenti, di linguaggi plurimi vengono meno le rigide e schematiche contrapposizioni tra figurazione e astrazione, tra razionale e non razionale, tra mente e corpo delineando così nuove possibili connessioni e relazioni tra contesti e realtà irrelate”.
Per ragioni familiari Maria Micozzi non ha frequentato scuole d’arte, ma fa dell’arte il suo lavoro sperimentando soluzioni tecnico-formali inedite con l’utilizzo di materiali elementari, come fili di ferro, spaghi e alto, che si fanno anche supporto di una qualità pittorica sulla grande tradizione del Rinascimento da Leonardo a Michelangelo. L’opera della Micozzi ha suscitato interesse da parte di molti critici tra i quali Pierre Restany, Giorgio di Genova, Vladimiro Zocca, Paolo Levi, Federico Zeri, Rossana Bossaglia, Floriano De Santi.
Pierre Restany, il teorico del Nouveau réalisme, presentando a Milano una personale della Micozzi commenta: ”Domani il corpo dell’artista sarà il suo paesaggio”. Nella presentazione a catalogo per la mostra di Urbino alla rampa di Francesco di Giorgio Martini, Floriano De Santi scrive: “La ricerca della Micozzi si presenta subito come del tutto straordinaria ed eccentrica, spostata dal baricentro attorno a cui di norma si raccolgono i linguaggi artistici”.
L’artista marchigiana ha a curriculum un’intensa attività espositiva non solo in Italia, che la mostra nelle sue diverse esperienze. Alla fine degli anni ’80 è presente all’Expo a New York; in Spagna è invitata ad una rassegna di artisti internazionali su iniziativa del Ministero della Cultura di Madrid. Sono da menzionare, inoltre, mostre a Francoforte, Miami, Londra e New York. Molte sono le sue personali allestite in Germania e Olanda.
Si richiamano a questo proposito le personali “La seduzione-ossessione e paura nei trattati degli Inquisitori” alla Rocca Malatestiana di Montefiore Conca (RN) nel 1997, che ha raccolto i complimenti di Federico Zeri; “La disperatissima sete-8 pièces per Giacomo Leopardi” a Recanati per il Bicentenario della nascita del poeta; “Maria Micozzi o il mistero del corpo” per la Fondazione Umberto Mastroianni a cura di Floriano de Santi nel 2002. Nel 2005 a Bologna presso la Galleria Castiglione Arte presenta “La domanda e l’utopia” ispirata a “Le città invisibili” di Italo Calvino, a cura di Giuseppe Vannucci. Esperienze di relatrice vedono la Micozzi esprimersi in convegni su temi teorici oltre che di arte; nel 2008 al Festival della Scienza di Genova la relazione “Attraversare la diversità” è presentata accanto ad una grande installazione; a Padova la relazione “Il nome del branco-ammutolire la preda”, all’interno di un convegno organizzato da Oikos-bios, è legata alla mostra “Don’t rape Lilith” che da Padova viene poi portata a Milano agli Archivi di Stato.
La sua vivacità creativa la spinge a un sempre rinnovato tipo di esperienze e di soluzioni formali come per ‘La nuova Lilith’, scultura in rete metallica dipinta, esposta a Overplay, evento della 55° Biennale di Venezia.
Nel 2015 la personale “Acque profonde” a Milano, a cura di MUMI-Ecomuseo Milano Sud, tratta il grande problema del futuro, la sete, e alla Casa Museo Alda Merini nel 2017 la mostra “Granelli di polvere” è centrata sulla violenza psicologica. Il paradosso che sta alla base della nostra cultura patriarcale, che fa del controllo uno dei suoi temi fondanti, è presente anche nelle opere esposte alla rassegna “Love & Violence” alla Galleria Civica di Padova del 2017.

 

Delilah Gutman (Madrid, 1978) è pianista e compositrice, cantante e poetessa. Vive e lavora a Rimini, alla ricerca di nuovi percorsi del sentire.
È docente in Composizione al Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro e redattrice di Finnegans, dove scrive per “Chiaro Scuro/Interviste sul presente” e “Masha e le altre/Donne e diritti”. Compositrice, conta prime assolute in Italia ed all’estero, oltre a trasmissioni radio, e diverse incisioni discografiche.
Pubblica con Stradivarius e Curci. Precedenti pubblicazioni si annoverano nel catalogo di Ut Orpheus e Sinfonica.
Interprete pianista e cantante, svolge l’attività concertistica in Italia e all’estero, come solista e in formazioni cameristiche, esplorando nel contesto del suo personale progetto di ricerca musicale MAP – musica, arte e poesia – la frontiera tra arte, musica e repertorio etnico, in relazione al linguaggio della musica d’arte in Occidente.
Si è esibita in Italia, Repubblica Ceca, Israele, Messico, Francia, U.S.A., India, Svizzera. Per il suo costante impegno nel dialogo interculturale è stata insignita nel 2012 dell’onorificenza di “Ambasciatrice dell’amicizia Israele-Italia” in occasione di un suo concerto in Israele. È socia di SIMC.
Poetessa, ha pubblicato con Raffaelli Editore i libri di poesie “Alfabeto d’amore”, con la prefazione di Manrico Murzi e la postfazione di Lucrezia De Domizio Durini, e “Alfabeto degli opposti”, con la prefazione di Manrico Murzi. Di prossima pubblicazione con lo stesso editore e con la prefazione di Manrico Murzi, è “Esistenze. Canto a due voci” in collaborazione con il poeta turco Erkut Tokman, con cui fa parte del movimento poetico Açik Şiir (Poesia Aperta). È autrice delle Singing Sculpture #1 “Il seme genera la parola” – installazione permanente presso il Museo J. Beuys di Bolognano, nella Piantagione Paradise – e Singing Scuplture #2 “L’amore genera la terra”, installazione permanente presso la Fondazione Verità di Locarno.

 

© finnegans. Tutti i diritti riservati

 

 

 

  • Delilah Gutman

    Delilah Gutman è compositrice e pianista, cantante e poetessa. È attualmente docente in Teorie e tecniche dell’Armonia al Conservatorio “G.Verdi” di Ravenna. Svolge la sua attività di musicista in Italia e all’estero – Cina, Repubblica Ceca, Israele, Messico, Francia, U.S.A., India, Svizzera e ancora. Trale pubblicazioni si annoverano le raccolte di brani e le composizioni edite da Sinfonica e Ut Orpheus, attualmente pubblica con Stradivarius e Curci. Come solista e in formazioni cameristiche, esplora nel contesto del suo personale progetto di ricerca musicale MAP – musica, arte e poesia – la frontiera tra arte, musica e repertorio etnico, in relazione al linguaggio della musica d’arte in Occidente. Per il suo costante impegno nel dialogo interculturale è stata insignita nel 2012 “Ambasciatrice dell’amicizia Israele-Italia” in occasione di un suo concerto in Israele. Poetessa, ha pubblicato con Raffaelli Editore i libri di poesie “Alfabeto d’amore”(Menzione d’onore al Premio Mario Luzi), con la prefazione di Manrico Murzi e la postfazione di Lucrezia De Domizio Durini,  “Alfabeto degli opposti” (Menzione d’onore al Premio Alda Merini), con la prefazione di Manrico Murzi, e “Esistenze/Canto a due voci”(Menzione d’onore al Premio Montano) con il poeta turco Erkut Tokman, con cui fa parte del movimento poetico Açik Şiir (Poesia Aperta). È autrice delle Singing Sculpture #1 “Il seme genera la parola” – installazione permanente presso il Museo J.Beuys di Bolognano, nella Piantagione Paradise – e Singing Scuplture #2 “L’amore genera la terra”, installazione permanente presso la Fondazione Verità di Locarno. Presiede l’Associazione Culturale DGMA.