RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Un poeta nel suo archivio. Per Giuliano Scabia, di Laura Vallortigara

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Un poeta nel suo archivio

di Laura Vallortigara

 

       Quando, nel gennaio 2018, andai per la prima volta a Firenze per incontrare Giuliano Scabia e iniziare il lavoro sulle sue carte d’archivio, lo trovai che mi aspettava al binario, sorridente nel suo giaccone rosso – rossa la sciarpa, rosso il maglione – che gli avrei visto indosso così di frequente nelle mie visite successive. Raggiungemmo l’archivio a piedi, camminando lungo gli stretti e accidentati marciapiedi delle strade di Firenze, all’ombra dell’imponente cupola del Brunelleschi.

       Giuliano raccontava della sua città adottiva e delle tante bellezze che restano nascoste agli occhi dei turisti più frettolosi, ma parlammo anche di Padova, dove era nato, di Venezia, dove lo avevo conosciuto grazie alla mediazione affettuosa di Silvana Tamiozzo,1 e soprattutto di quella luminosa costellazione di poeti amici e sodali – Zanzotto, Bandini, Calzavara, ma anche Rigoni Stern e Meneghello – sentiti vicini, quasi fratelli, nel racconto e nella scrittura: li accomunava tutti una sorta di «humus regionale», una «radice venetica remota», per usare le parole di Carlo Della Corte, fatta di «affabulazioni, chimere, realtà contadine, misteri boscherecci e altro»2 così presente anche nei romanzi dei cicli di Nane Oca e dell’Eterno andare e in molte delle poesie del Poeta albero. Affinità, collaborazioni e colloqui – anche fuori dal Veneto: finissimo e assai partecipe, in particolare, il dialogo con Gianni d’Elia – che l’archivio custodisce e di cui reca testimonianza: i molti fili intrecciati in oltre cinquant’anni di inesausta e visionaria attività creativa, al crocevia di più generi, conducono se percorsi a ritroso proprio nello studio fiorentino di via delle Conce, dove libri, fotografie, raffinati disegni d’autore, registrazioni, scartafacci e avantesti fitti di appunti e correzioni, lettere e taccuini consentono di illuminare il percorso ricchissimo di un poeta gentile e sapiente, che è stato maestro per molti senza pretendere mai di esserlo.

Giuliano Scabia in sella al fedele Benenghéli, compagno di avventure e di visioni (Immagine di repertorio)

       Poco lontano dall’archivio, autentico «pozzo d’acqua viva»3 del suo lavoro, Scabia costruiva con perizia d’altri tempi gli oggetti di scena e i personaggi protagonisti delle sue storie, a partire dal cavallo di cartapesta Benenghéli, compagno fedele di tanti viaggi di poesia e di amicizia nei paesi dell’alto Appennino reggiano e sugli altri “palcoscenici” (strade, piazze, sentieri) del suo Teatro Vagante: officina delle parole e della scrittura l’uno, della creazione artigiana l’altro, laboratori straordinari dove dare vita alle fantastiche visioni oltre soglia del Mondo Accanto.

       Lo studio delle carte dell’autore, conservate in oltre centocinquanta faldoni ordinati con criterio cronologico (i primi fascicoli contengono materiali e testi poetici risalenti ai primi anni Cinquanta), consente di far affiorare pezzi significativi della storia culturale del Novecento. In quella mia prima visita esplorativa, Scabia mi indicava sentieri da ripercorrere con curiosità e pazienza, riconvocando compagni di strada con i quali aveva condiviso, più o meno a lungo, percorsi inusitati di sperimentazione e ricerca e con cui, soprattutto, il dialogo sembrava non essersi mai interrotto. «Il cantare chiamare nominare nutre il domani: / lo nutre d’ogni presente e passato»: ed eccoli, ancora a chiacchiera, Luigi Nono, Carlo Quartucci, Leo de Berardinis, Lisetta Carmi, Jan Koblasa, Pino Spagnulo, Vittorio Basaglia e gli altri collaboratori impegnati nell’esperienza del Laboratorio P all’ospedale psichiatrico di Trieste, Peppe Dell’Acqua, Gianni Celati, Piero Camporesi, Sveno Notari, Mimmo Cuticchio, Donato Sartori, i poeti amici a cui chiedere conforto sul «difficile sentiero di ascoltare il linguaggio – le bizzarre, ansiose schinche della poesia»4 (Roberto Roversi, Vittorio Sereni, Franco Fortini, Elio Pagliarani, solo per citarne alcuni), voci presenti e complici di un incessante ricercare, evocate con sapienza e amore.

Giuliano Scabia, Colloquio, disegno (1985)

       La voce gentile di Giuliano mi guidava, mostrandomi con generosità gli spazi e i modi del suo lavoro – il grande tavolo ingombro di fogli e cartelle, tra libri da consultare, delicati pastelli, qualche fotografia e i “santini” taumaturgici delle Foreste sorelle – facendomi entrare nell’officina del racconto e nel teatro della sua memoria, dove – deposte a seme – le parole e le immagini del vissuto germogliavano generando storie prima da ascoltare e solo in seguito da scrivere. Intorno al tavolo, disposti lungo tre ampie pareti, i libri della cospicua biblioteca (peraltro dilatata anche alle altre stanze dello studio e al soppalco che ospita i quaderni di drammaturgia, frutto della sperimentazione condotta con gli studenti del DAMS di Bologna fino al 2005) testimoniano degli interessi assai vasti e della sensibilità dell’autore: saggi di filologia, di storia della lingua e di dialettologia (Paccagnella, Marisa Milani), studi sull’oralità (Ong, Zumthor e Bologna) e sull’etologia (Lorenz e Mainardi), testi sul teatro e sulla traduzione, molti vocabolari di lingue straniere – solo per limitarci ai volumi presenti in questa parte dell’archivio – e, sul lato destro, interi scaffali dedicati a Padova e al patrimonio di storie del Veneto rurale, confluite nelle pagine di Nane Oca insieme al ricordo (ma il recupero memoriale è sempre proiettivo in Scabia) del tempo «magico» trascorso, da bambino, sfollato a Bertipaglia, quando la famiglia lasciò la città per cercare riparo dai bombardamenti della guerra in campagna.5

La carta manoscritta con l’episodio dei Gatti Bisiganti (poi edito in Le foreste sorelle)

       Proprio il ciclo pavano era spesso al centro delle nostre conversazioni durante le mie visite in archivio. L’analisi delle carte suggeriva nuovi percorsi di lettura e di interpretazione del testo, mostrando le stratificazioni progressive – le piste scartate, le moltissime riscritture per via di levare – che costituiscono la lunga storia redazionale della tetralogia narrativa, rivelando quanto studio ci fosse dietro l’apparente levità fantastica («da fioretti»!) della narrazione. Scabia ha ricordato spesso, in conversazioni e interviste, come Nane Oca abbia avuto un’incubazione lenta, durata almeno un ventennio. Si trattava di far emergere, «a colpi di sonda», le parole del profondo, intonandole alla «musica della scrittura»: «per l’inizio di Nane Oca – scrive l’autore – non trovavo mai la musica giusta: ci ho messo anni, non veniva mai, […] finché una notte, nel gelo, su un monte, ho sentito che arrivava la frase: “Che notte blu scura”. Era il tema di inizio, la musica sua».6 Un lavoro di accordatura eseguito con pazienza attraverso le tante letture realizzate prima della pubblicazione in casa di amici, sulla Riviera del Brenta, a Marmoreto, per ritrovare, nella voce, il tremito, la potenza dell’epos che crea comunità di ascolto, e di cui l’archivio conserva lucida memoria.

Giuliano Scabia, Giovanni inseguito dalle oche, disegno (1991)

       Lavorando sugli appunti e sulle stesure intermedie del testo, ero calata nel processo della scrittura di Scabia, ne seguivo i movimenti, le pause, le contaminazioni con altri progetti, le interlocuzioni: dentro Nane Oca sono confluite rigorose letture sul mito, approfondimenti sul lessico e sulle evoluzioni della lingua, indagini storiografiche, excursus di botanica, studi di antropologia e in particolare sui carnevali alpini (utili a comprendere non solo un personaggio centrale come l’Uomo Selvatico, ma anche alcune immagini altrimenti poco trasparenti: in una redazione poi scartata, Giovanni va alla ricerca del momòn e della tecia fersora, una ‘padella per friggere’, vero e proprio oggetto magico, osservato da Scabia a più riprese – nel 1975-1976 e ancora nel 1988 – durante i riti del carnevale di Palù del Fersina, nella trentina valle dei Mocheni, che terminano con la distribuzione, tra il pubblico presente, di una torta magica, beneaugurante e ritenuta in grado di proteggere dal morso di vipera, nella quale andranno forse rintracciate le radici dello scabiano momòn). E ancora, tra le «pieghe» del racconto, emergono tra omaggi singolari gli autori e i testi della tradizione (Dante, Petrarca, Ariosto, ma anche Ruzante e Rabelais) e le voci contemporanee, gli amici narratori presi a modello del raccontare (i cantori del Maggio, i pupari siciliani, Cristiano Contri con le fole dell’Altopiano di Asiago) e gli editori consiglieri (Roberto Cerati, storico presidente dell’Einaudi, e Cesare De Michelis, alla guida di Marsilio). Le tracce di questo scambio fruttuoso, moto continuo tra la fantasticheria e la vita, che ha nutrito il lavoro di questo grande affabulatore sono tutte lì, nelle carte, pronte a prendere parola, desiderose di essere esplorate («non è l’archivio anch’esso una foresta sorella?», mi disse una volta Scabia).

I quaderni di drammaturgia di Giuliano Scabia

 

La sua collezione di maschere e burattini (archivio)

        Nel terzo volume della saga, Nane Oca rivelato (Einaudi 2009), il professor Pandòlo svela a Giovanni (e a noi lettori) «i segreti del nome parola, che sono poi gli stessi della parola leggere – segreti che riguardano […] tutte le storie del mondo»: 

Sai cosa c’è dietro? C’è una parola greca che di solito nelle chiacchiere non si usa ma le tiene insieme tutte: logos – che vuol dire discorso e legge. Viene da leg – dire e legare, legare col discorso. Caro Giovanni, credo d’aver capito, col tempo e l’esperienza, che tutto si può chiamare logos: gli atomi di idrogeno ed elio che legandosi hanno dato origine all’Universo, le stelle e le galassie legate dalla luce e dalla legge di gravità, il tempo e l’eterno, i pensieri e gli amori, gli odi e la morte, i poemi, i canti, le voci, le chiacchiere, il momòn, i letami, le pete e i nomi che diamo tutto ciò che vediamo e anche a quello che ancora non vediamo.7

Giuliano Scabia, Logos, disegno

 

L’archivio di Giuliano Scabia

       L’archivio è rimasto, fino alla fine, uno spazio vivo, deposito della memoria e documento del cammino percorso, ma soprattutto teatro primo di immaginazioni che Scabia non si è mai stancato di inventare e condividere con gli altri, legando, attraverso la sua parola suscitatrice e visionaria, persone e paesi, bestie fantastiche e reali, attivando confronti, relazioni, scambi, mettendo in moto energie. Se sapremo interrogarle con amore, le carte di questa officina-laboratorio, autentica casa della scrittura, continueranno a generare dialoghi, a costruire legami nel segno della parola, svelando sentieri nascosti nelle foreste del racconto e facendoci forse sentire un po’ meno soli.

Note
1. Nell’ambito della giornata di studio organizzata da Silvana Tamiozzo e Paolo Puppa intorno al ciclo di Nane Oca (Camminando per le foreste di Nane Oca, Venezia 19 maggio 2015). Lettori e studiosi del ciclo pavano si sono in seguito dati appuntamento a Milano nel 2019 per una seconda giornata di proficuo confronto, svoltosi presso l’Università di Milano-Bicocca a cura di Angela Borghesi e di chi scrive (Per sentiero e per foresta. Percorsi di lettura sul ciclo di Nane Oca, 26 novembre 2019).
2. Riccardo Calimani, La polenta e la mercanzia, foto di F. Roiter, Rimini, Maggioli Editore, 1984, p. 94.
3. Oliviero Ponte di Pino, Speciale archivi. Giuliano Scabia in 150 faldoni, «ateatro», 152, disponibile online: http://www.ateatro.it/webzine/2015/01/23/speciale-archivi-giuliano-scabia-in-150-faldoni/#prettyPhoto/3/

4. Giuliano Scabia, Un poeta, «Doppiozero», 22 settembre 2012, disponibile online https://www.doppiozero.com/materiali/editoriale/un-poeta
5. Si veda il racconto che Scabia ne fa nello scritto Bertipaglia mi parve un paradiso, in Una signora impressionante. Della poesia e del teatro il corpo, Bellinzona, Casagrande, 2019, pp. 16-22.
6. Così racconta l’autore nella bella intervista realizzata da Isabella Maria in Un altro presente è possibile. Percorsi di resistenza creativa, Torino, EDT, 2016, pp. 182-225: 201.
7. Giuliano Scabia, Nane Oca rivelato, Torino, Einaudi, 2009, p. 120.

Foto di copertina: Giuliano Scabia in sella al fedele Benenghéli, compagno di avventure e di visioni (© Teatrino Giullare).


Un sentito ringraziamento alla famiglia di Giuliano Scabia per la disponibilità
e la gentile concessione delle immagini

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Laura Vallortigara ha conseguito il dottorato in Italianistica nel 2017 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (in cotutela con Université de Lausanne) e attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Milano-Bicocca. Si è occupata di poesia contemporanea, della ricezione del mito classico nella Letteratura italiana del Novecento e di traduzioni d’autore; ha pubblicato molti saggi su Giuliano Scabia e sulla sua opera (indagata a partire dalle carte d’archivio) e curato gli atti delle due giornate di studio organizzate da Silvana Tamiozzo e Paolo Puppa a Venezia nel 2015 (Camminando per le foreste di Nane Oca, a c. di L. Vallortigara, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2016) e insieme ad Angela Borghesi a Milano nel 2019 (Per sentiero e per foresta. Percorsi di lettura sul ciclo di Nane Oca, a c. di L. Vallortigara, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2020). 

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