RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Se permettete parliamo di streghe, di Paola Di Giuseppe

[Tempo di Lettura: 7 minuti]

     Parafrasando Se permettete parliamo di donne, celebre titolo di Ettore Scola ai suoi esordi nel 1964, parliamo di streghe, quelle strane creature che l’immaginario collettivo, conclusa la caccia seguita da roghi, ha classificato in due categorie: la buona Befana, mito infantile di tempi poco opulenti, oggi surclassata dal ricco Babbo Natale colmo di doni, e la strega-horror che dai roghi medievali è volata sui set di Hollywood per prodotti ad uso di palati poco esigenti o pellicole autoriali firmate George A. Romero o Dario Argento, per restare tra i migliori.
Sorvolando sull’uso del vocabolo che il linguaggio comune spesso banalizza (strega per amore, streghetta di papà, stregato dal tuo fascino) e senza addentrarci nella storia di un’antichissima parola che ha segnato millenni di storia (Ovidio nelle Metamorfosi parla delle “strigi”, orrende creature che straziano i neonati), val la pena di occuparsi del presente a proposito della ripresa massiccia del fenomeno e della “normalizzazione” che la caccia alle streghe sta vivendo.
Se sei donna e hai della terra, sei una strega.
Se sei donna e sei indipendente, sei una strega.
Un distico che sintetizza molto bene ciò che accade, in particolare in quelle aree del mondo dove le donne sono più indifese.

     Ce ne parla Silvia Federici in Caccia alle streghe, guerra alle donne, Produzioni Nero, ed. 2020.
Femminista, scrittrice, sociologa militante e professoressa emerita alla Hofstra University di New York, questo suo ultimo lavoro fa il punto sulla violenza misogina che negli ultimi decenni ha vissuto un’accelerazione tale da riportare alla memoria i tempi in cui la donna-strega era la preda designata di una caccia senza quartiere, un massacro che dal 1328 al 1782 vide morire circa 50.000 donne.
Causa principale di questa rinnovata ondata persecutoria individuata da Federici è l’accumulazione capitalistica, che allarga il fenomeno di violenza domestica e sessuale ad una visione molto più ampia di tipo economico e strutturale.
In poche parole (ma varrebbe la pena di leggere le 152 pagine di prosa serrata e ampiamente documentata del libro) oggi come ieri la violenza contro le donne è il derivato di un progetto neoliberista che solo una rinnovata presa di coscienza delle lotte femministe è in grado di contrastare. Infatti non c’è da aspettarsi tutela da parte delle istituzioni, spesso complici, la memoria e l’analisi del passato sono i mezzi più efficaci per dotarsi di difese adeguate.
Per restare alla lettera dell’espressione e capirne la portata bisogna guardare soprattutto al terzo e quarto mondo, dove si presenta nelle sue forme originarie più radicali. Nella società industrialmente avanzata, che è la nostra, parlare di “caccia alle streghe” sembra fuori tempo, obsoleto, alla violenza sulle donne spesso si attribuiscono significati eccentrici, ragioni legate alla sfera relazionale e tendono a prevalere analisi legate al sessismo.
Tutte ragioni molto valide e pertinenti, ma guardare un fenomeno in vitro al suo nascere, nella sua forma embrionale forse aiuta a capire meglio.

     In Africa, in India, in Nepal e in Nuova Guinea, i “campi per streghe” continuano a liberare i villaggi da figure scomode, vecchie diventate un peso morto, rivali in amore, vicine di casa antipatiche, ma soprattutto donne a cui confiscare qualche misera proprietà.
Sono 3000, donne e bambini, solo nel nord del Ghana, ma i numeri globali sfuggono perché la latitanza delle istituzioni è grande.
Mio suocero voleva prendere le mucche, la terra e il denaro che mio marito mi aveva lasciato, e io mi sono rifiutata. In seguito, mi hanno accusata di essere una strega, così mi avrebbero cacciata e loro si sarebbero appropriati di tutto” è una delle tante testimonianze.
Alle ragioni economiche si aggiunge la violenza indotta da sette religiose che vedono all’opera esorcisti cristiani e guaritori tradizionali, tutti mossi dall’intento di liberare la malcapitata dal demonio.
Alla luce di queste considerazioni I am not a witch, il film di Rungano Nyoni di cui segue analisi, pur essendo a tutti gli effetti una fiction, può essere considerato un documento reale, sconvolgente e doloroso di una condizione femminile ancora oggi ferma a secoli fa, poco importa che in quei paesi si chiami ancora “caccia alle streghe” e da noi femminicidio, la violenza non subisce evoluzione, cambia solo nome.

 

 

I am not a witch
Regno Unito, Francia 2017 durata 98’
Regia: Rungano Nyoni
Cast: Maggie Mulubwa, Nellie Munamonga,
Dyna Mufuni, Nancy Murilo, Ritah Mubanga

 

     Presentato il 31 maggio 2017 alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, è il primo film di Rungano Nyoni, una fiaba dura, a tratti spietata, come spesso le fiabe, ma quanto capace di dire tutto, raccontarlo all’infinito, come i canti delle streghe, una frase, sempre uguale, un martello su un chiodo arrugginito!
Da millenni.
Siamo soldati del governo e ci siamo abituate. Ci siamo abituate e non ci stanchiamo”, cantano le streghe agli ordini del padrone.

     Rungano Nyoni, nata in Zambia e residente in Galles, sceglie il format fiabesco e il direttore della fotografia David Gallego (El abrazo de la serpiente 2016, Oro verde – C’era una volta in Colombia, 2018) dà la magia perfetta alle riprese.
Perché, dice la regista:
La prima cosa a cui miravo era fare qualcosa che fosse solo una favola, e qualunque cosa facessi per arrivarci era l’idea. Ho studiato molte vere accuse di streghe, campi di streghe, e poi ho esagerato ciò che era già lì. Ho preso la mitologia da tutte queste fonti diverse, tutto è una fusione di ricerche che ho fatto in diversi paesi e l’idea delle fiabe nel cinema: è un insieme di idee diverse, usando la mia immaginazione”.
Shula (Maggie Mulubwa) è una bambina di circa otto anni apparsa dal nulla sul sentiero di una donna che ha appena raccolto acqua dal pozzo. La donna inciampa, l’acqua si rovescia, Shula è la strega che l’ha fatta cadere.

In estrema sintesi questa è la storia del film.
https://www.youtube.com/watch?v=telx5Pfe2-I

Seguono sequenze di un dramma pieno di ironia e tristezza: personaggi che entrano a contatto con Shula, membri degli apparati di potere e ordine pubblico, manovalanza attrezzata al controllo e al funzionamento della baracca, il coro delle vecchie “streghe” e i turisti curiosi in gran tour su autobus con guida che vogliono vedere le “streghe”, e loro sono lì, sedute a terra, schierate per foto ricordo, residui umani grotteschi, schiave legate al loro destino da lunghe fasce bianche fissate alle spalle, guinzagli tenuti insieme e incardinati sul rimorchio di un camion vicino.
Un mondo reale, non è fantasy né fantascienza, è quello che accade ancora nel 2021.
Solo che le “streghe” non vanno al rogo, sono forza-lavoro, schiave legalizzate da un potere arbitrario e assoluto.

La fascia bianca:
è la trovata più paradossale del film, non sappiamo se corrisponda alla realtà, ma se anche fosse pura invenzione ha una valenza simbolica devastante.
Sul rimorchio del camion giallo sono installati enormi rocchetti a cui sono avvolte le fasce che guidano il movimento delle “streghe”, qualche metro non di più, lo spazio per lavorare tutto il giorno chine a terra nei campi. Se qualcosa non va, uno strattone e si torna all’ordine.
Lo svolazzare leggero delle fasce sullo sfondo della terra arida dello Zambia, sotto un cielo azzurro senza nuvole che non promette mai pioggia, crea un inedito contrappunto.

Antonio Vivaldi e Franz Schubert (Schubert, sinfonia n.1 Op. 82, adagio – allegro vivace, Vivaldi, Winter, adagio, da Le quattro stagioni) entrano in forza con travolgenti pieni orchestrali, ma presto tacciono come inebetiti. È in arrivo l’autobus carico di turisti curiosi, il fenomeno “streghe” con selfie al seguito è compreso nel pacchetto-viaggio.

     Il silenzio di Shula, bambina senza nome (Shula gliel’hanno dato le colleghe “streghe”), senza passato, senza storia, ben presto senza vita, il pozzo senza fondo di ignoranza, superstizione e violenza, non solo maschile (la spietata guru del villaggio è donna, la turista che vuol farsi una foto con Shula è donna, la poliziotta che interroga la “strega” masticando snack è donna), sono componenti di un film dal fascino strano, quello delle fiabe, appunto, che si leggono da piccoli alimentando quell’immaginario fantastico che nella vita precorre il reale e ne contiene le chiavi.
Racconto tutto al femminile, a partire dagli occhi seri, a volte interrogativi, a volte tristi, di Shula, che sorridono solo nel brevissimo momento di vita scolastica che le viene concesso, è un film che vanta forti crediti per l’abile amalgama di commedia, tragedia e magia, convivenza di folklore e incubo iperreale, estetica visiva funzionale al libero gioco dell’immaginazione che traduce in concetti, simboli e linguaggio le figure sullo schermo.
Le vecchie “streghe”, imbruttite oltre misura, spaventosi manichini di un teatro dell’orrore, non dimenticano un residuo di vanità tutta femminile quando comprano parrucche colorate. Eppure sono creature dolcissime, rassegnate alla loro sorte, totalmente impotenti, non possono aiutare più di tanto la piccola mascotte, ma le dedicano la loro materna solidarietà e canteranno per lei la nenia funebre nella stupenda ripresa dall’alto che chiude il film.
La “strega” integrata, quella più procace dai capelli biondi che ha sposato il ciccione capo del governo locale, lo insapona nella vasca, è prona al suo volere e, come sostiene con orgoglio, è diventata “rispettabile” col matrimonio, è comunque compassionevole e amica della piccola Shula che il marito ha eletto a sua “piccola strega” e porta in giro come un feticcio portafortuna.

Screenshot, dal film I am not a witch (You Tube)

     È un universo femminile dominato da quieta condiscendenza ad un ordine stabilito, da totale appiattimento ad una sudditanza vissuta come legge di natura. L’educazione, le convenzioni sociali, i condizionamenti culturali indotti da magia e superstizione collaborano all’immobilismo, sembra che sia impossibile anche solo pensare ad un riscatto di quei destini, ad una parità di genere.
Eppure Shula lo fa, così piccola e disarmata, nell’assoluto nulla in cui vive e da cui è venuta, tenta di fuggire ma è ripresa, si chiude nell’autobus, ma rompono il finestrino ed entrano a riprenderla, estranea ad un mondo in cui sembra caduta per caso, come venuta dallo spazio, emana l’unico messaggio di libertà che spariglia tutte le carte e rivela l’assurdo della condizione umana.
Iperrealistico e farsesco, Non sono una strega non è un film di denuncia né un pamphlet sull’Africa sfruttata e dimenticata.
È un film sull’oppressione femminile che si alimenta ogni volta traendo forza dalla cultura del presente.
Smartphonetalk show televisivi, il corpo femminile offerto al mercato del consumo, la cultura dell’apparire, del successo ad ogni costo, sono segni di un presente senza roghi, solo “opere di bene”.
Ma Shula non ci sta, quando in quella specie di cerimonia d’investitura iniziale le hanno lasciato la scelta sull’essere dichiarata strega o diventare una capra, lei ha scelto per inesperienza la prima opzione.
Poi la vita le ha insegnato come stanno le cose e allora dice le poche parole di tutto il film, tremende e catartiche:
Avrei dovuto scegliere di essere una capra, una capra è meglio, si può muovere liberamente e mangia quando vuole”. 

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Immagine di copertina
Screenshot dal film The Witches (Le streghe), di Robert Zemeckis (2020) − Wikipedia

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Paola Di Giuseppe ha insegnato a lungo Greco e Latino fino a quando ha potuto dedicarsi senza limiti di tempo al suo interesse centrale, il Cinema, una passione nata da bambina, quando s’innamorò di Gelsomina de La strada di Fellini. Ha collaborato con alcuni siti di Cinema on line, indie eye e film tv, ed ha un sito www.paoladigiuseppe.it in cui raccoglie recensioni, scritti sul Cinema e dintorni, suoi o di altri.
Perché ha aderito a Lilith? Le piace rispondere con Primo Levi: “la storia di Eva è scritta, e la sanno tutti; la storia di Lilíth invece si racconta soltanto, e così la sanno in pochi”.

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