RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Le passioni visive di Marino Marini. Conversazione con Barbara Cinelli, di Anna Trevisan

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Le passioni visive di Marino Marini

Era l’autunno del 1949 quando Peggy Guggenheim organizzò nel suo giardino di Palazzo Venier dei Leoni una mostra di sculture. Tra quelle di Arp, Brancusi Calder, Moore e Giacometti c’era anche quella di Marino Marini, che aveva comprato a Milano, direttamente dall’artista. Come ricorda la stessa Peggy nella sua autobiografia (Out of this century) “Marini sistemò la scultura nel cortile sul Canal Grande, di fronte alla Prefettura, e la chiamò L’Angelo della Città”. Da allora la collocazione di quell’irriverente quanto gioiosa scultura di cavallo e cavaliere è rimasta pressoché intatta. Il suo affaccio prodigioso e sfrontato sul Canal Grande distingue ancora oggi l’ingresso acqueo alla collezione Guggenheim.

Il 27 gennaio 2018 proprio alla Peggy Guggenheim è stata inaugurata la mostra Marino MariniPassioni Visive. Confronti con i capolavori della scultura dagli Etruschi a Henry Moore, a cura di Flavio Fergonzi e Barbara Cinelli. Qui di seguito la nostra intervista con la prof.ssa Cinelli.

Peggy Guggenheim nella terrazza di Palazzo Venier dei Leoni accanto a Marino Marini, “L’angelo della città” (1948); Venezia, anni ’60 – © Fondazione Solomon R. Guggenheim, foto Archivio CameraphotoEpoche, donazione Cassa di Risparmio di Venezia, 2005

Le passioni visive di Marino Marini alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia – Conversazione con Barbara Cinelli, curatrice
di Anna Trevisan

 

Questa mostra è la prima retrospettiva dedicata a Marino Marini dopo molto tempo. In esposizione ci sono circa una settantina di opere dell’autore che, come curatori, lei e Flavio Fergonzi avete scelto di mettere in colloquio con quelle di altri artisti – da August Rodin a Giacomo Manzù e Henry Moore. In ogni sala ci sono infatti una o più sculture di Marini ad interloquire con opere di artisti coevi o con opere della classicità. L’impressione è che abbiate cercato di creare una sorta di glossario visuale, per far capire l’“etimologia iconografica” delle sculture di Marino Marini. Questa è una scelta curatoriale molto forte.

Se posso, vorrei fare due precisazioni. La prima è che Flavio Fergonzi e io abbiamo deciso di fare una scelta curatoriale – come lei dice –  molto forte e di non fare una “retrospettiva”, perché la retrospettiva, in genere è la riunione delle opere di un artista, una rassegna monografica che ricostruisce cronologicamente – e a volte seguendo dei nuclei tematici – il percorso di un artista. L’ultima retrospettiva su Marino Marini è stata fatta a Roma nel 1966, a Palazzo Venezia. Noi abbiamo deciso di non fare, appunto, una retrospettiva ma – come lei giustamente ha detto – di cercare piuttosto di ricostruire il “glossario” di Marino Marini. Il concetto di “glossario” è un concetto che mi piace molto.

La seconda precisazione che vorrei fare riguarda la parola “iconografia” perché, anche se visitando la mostra si può avere l’impressione che i “prestiti” siano soltanto sul piano iconografico – cosa questa che è senz’altro vera in parte, perché altrimenti sarebbe diventata una mostra troppo difficile – non è così. Dalle opere degli altri artisti, infatti, Marino Marini prende in prestito e include nel suo repertorio visivo non soltanto le iconografie ma anche e soprattutto il modo di fare scultura. Quando abbiamo costruito questo “glossario” abbiamo voluto andare oltre un mero rapporto iconografico, per far capire quali sono i problemi di uno scultore e della scultura.

Marino Marini al lavoro,© Fondazione Museo Marino Marini (Pistoia)

Come siete riusciti a ricostruire le sue “Passioni visive”, se possiamo chiamarle così, rubando al titolo della mostra?

Siamo partiti dalle fonti, come siamo soliti fare io e Flavio Fergonzi, cioè dalla lettura di testimonianze dell’epoca: articoli di giornali, corrispondenza, ma anche vie “alternative” e a volte poco immaginate. Per esempio, la via delle recensioni, come quella sulla Quadriennale di Roma del ’35, dove non si parla esplicitamente di Marino Marini ma si parla del dibattito sulla scultura, cosa che ci permette di capire qual era l’humus culturale in cui Marino viveva in quel momento. E poi, ricostruendo in modo analitico la sua biografia – altro aspetto per noi molto importante – siamo riusciti a capire anche quali sono stati i suoi percorsi, non solo geografici: chi incontrava, dove andava, che cosa leggeva.

L’angelo della città, 1948, bronzo, 175 x 176 x 106 cm, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia, © Marino Marini by SIAE, 2018

In mostra nella primissima sala – quella dove ci sono i ritratti – c’è una testa italica esposta insieme a due sculture di Marino Marini. Questa scelta, ad esempio, l’abbiamo fatta perché sappiamo molto bene, grazie alle primissime recensioni su Marino Marini – quelle della fine degli anni ’20, prima che lui andasse a Milano chiamato da Arturo Martini – che i critici del tempo in quelle sue prime opere vedevano il ricordo di sculture italiche, di sculture arcaiche, di sculture etrusche e romane. Sappiamo poi che in quel periodo c’era in corso un dibattito molto denso e molto importante sul ruolo che la civiltà antica aveva nell’arte italiana. Quindi, è plausibile supporre che Marino Marini, allora studente all’Accademia di Belle Arti di Firenze, conoscesse molto bene i calchi che lì erano conservati; che vivesse in questo clima culturale e leggesse dei libri a riguardo; che andasse al Museo Archeologico di Firenze.

L’esempio che ho fatto per spiegare i criteri della scelta delle opere esposte nella prima sala insieme a quelle di Marini è valido anche per tutte le altre sale. Molto spesso dalle altre opere non si desumono solo le iconografie ma anche il modo di fare scultura di Marino Marini, anche in opposizione a quello che Marini guardava. La quarta sala, quella delle Pomone – dove sono esposte la Giovinetta [1938, bronzo, N.d. R.] di Marino Marini accanto all’Armonia [1940-44, bronzo] di Maillol – ne è un esempio molto calzante, perché il confronto con il nudo femminile è un dato che accomuna gli scultori negli anni ’30, in Germania così come in Francia e in Italia. Quindi, è chiaro che anche Marino Marini ci si confronta. Maillol di questo confronto con il nudo femminile aveva dato una versione assolutamente classica: in quella scultura ci sono dei ritmi quasi cinquecenteschi, una superficie di bronzo assolutamente pulita, come una “pelle”, che isola la forma plastica della scultura. Marini invece riprende la forma femminile ma ne dà un’interpretazione completamente diversa. Nella sua Giovinetta è la superficie stessa ad essere diversa, non è pulita come in Maillol e diventa un elemento autonomo rispetto alla costruzione della forma plastica, perché lascia le tracce della fusione in evidenza, e perché interviene successivamente alla fusione, con strumenti che graffiano e incidono e che quindi “animano” la superficie.

Marino Marini, Cavaliere, 1947, Bronzo –
100,05 x 67 x 49 cm – Monaco di Baviera, Bayerischen
Staatsgemäldesammlungen Pinakothek der Moderne

In mostra c’è anche la ritrattistica, ma le figure delle Pomone e del Cavaliere sembrano essere i soggetti che Marino Marini predilige. Quali sono le radici visuali di questi soggetti e perché, secondo lei, c’è questa predilezione quasi seriale verso questi soggetti?

Cavalli e cavalieri nascono prima delle Pomone. La prima Pomona – che lui non chiama Pomona ma Giovinetta – è del ’38; invece il primo cavaliere è del ’36. Nel ’35 aveva vinto il premio alla Quadriennale con la scultura Icaro. Il premio gli viene attribuito proprio perché, secondo la critica ufficiale, la rinascita della scultura si doveva basare sul nudo maschile come emblema del ritorno alla forma pura, in contrapposizione a Rodin e al simbolismo. Quando nel ‘36 espone Cavallo e cavaliere, la critica lo ha ormai consacrato come l’interprete della nuova scultura in Italia. Ma con il gesso di Cavallo e cavaliere sembra improvvisamente svoltare e contraddire l’immagine che gli era stata attribuita e riconosciuta, perché ci sono forme così semplificate da sembrare dei manichini: un manichino cavaliere su un manichino cavallo, come se avesse improvvisamente rinunciato al modellato e avesse improvvisamente deciso di spingersi su una strada di astrazione e di semplificazione che, soprattutto rispetto al modello tradizionale del monumento equestre, non aveva alcun senso per la critica. Tant’è vero che Ugo Ojetti dice che sembra “una scatola di cavaliere”. Ricordiamoci tra l’altro che nel ‘36 è in corso la guerra d’Africa [la seconda guerra italo-etiopica, N.d.R.] e che quindi, in quel periodo, l’iconografia del cavallo e cavaliere assume un significato particolare: quello del condottiero che si impone sui Barbari.

Marino Marini, Icaro, 1933 – legno, 180 x 70 x 50 cm,  Collezione privata

Marini si difende dagli attacchi della critica – forse una delle rare volte in cui lo fa – e scrive che, per lui, scolpire i nudi è un problema di “costruzione di forme” e che, procedendo su questa strada, il tema che gli offre più possibilità per verificare se come scultore è in grado di “costruire forme”, è la coppia cavallo-cavaliere, cioè la figura umana e il più nobile esempio di animale. Abbinate insieme, queste due figure sono per lui il modo per costruire delle forme in equilibrio. Sono un problema – come lui stesso dice – di musica, di ritmo e di composizione. Quindi, trova inutile il contestargli che non è capace di scolpire un cavallo e un cavaliere, perché per lui non è un problema di contenuti ma di forme. Per tutta la vita Marini dirà che il cavallo e il cavaliere gli offrono proprio questo: come un musicista con sette note può fare spartiti, fino a comporre delle sinfonie, così per lui il cavallo e il cavaliere sono degli elementi di un ritmo musicale che può cambiare, combinare, modificare a piacere. Marini molto spesso fa riferimento alla musica, perché la musica è un linguaggio astratto di segni, però comunica pathos. Per lui il cavallo e il cavaliere sono un modo per “costruire forme” e per comunicare pathos.

Il pellegrino (San Giacomo a cavallo), 1939, Gesso, Dim.
del cavallo 167 x 141 x 44 cm – Dim. del cavaliere  118 x 62 x 51 cm – Collezione privata, Milano – © Marino Marini by SIAE, 2018                                                               

Il gesso del Cavallo e cavaliere del ’36 oggi non esiste più. Della versione del ’36 esiste solo una fusione in bronzo, conservata a Sidney, e una versione in legno, comprata da un collezionista privato, poi acquistata dalla Collezione Agnelli e oggi di proprietà dei Musei Vaticani. In mostra a Venezia abbiamo però la versione in bronzo del ’37 esposta a Roma, nella Camera dei Deputati [Gentiluomo a cavallo, N.d.R.] che è la versione più vicina a quella del ’36, e il gesso del ’39 [Il pellegrino (San Giacomo a cavallo), N.d.R.]. Nella versione del ’39 il cavallo è di maggiori dimensioni, ha un’inclinazione che è quasi di passo di danza ed è abbinato alla figura di un cavaliere che invece sembra come stupefatto. Non sono solo forme astratte, ma non sono nemmeno quelle di un monumento equestre tradizionale.
Marino Marini ha detto che l’idea del Cavallo e cavaliere del ’36 gli è venuta dopo un viaggio in Germania, a Bamberga, dove ha visto il monumento equestre nella cattedrale. La mia opinione, però, è che trattandosi di una dichiarazione di molto successiva al ‘36, perché è stata fatta dopo il successo degli anni ’50 negli Stati Uniti, è frutto di un ricordo lontano e che quindi  – per quanto possa essere stata detta in buona fede – non possiamo sapere se sia davvero attendibile.

Il suo stile cosiddetto arcaico attinge anche dall’arte etrusca.

Sì, questo è vero per quanto riguarda le prime opere come Popolo [1929, terracotta] o come Prete [1927, cera e gesso] che guardano esplicitamente all’arte etrusca e ne danno una versione moderna. Ma quando Marini va a Milano, i suoi riferimenti cambiano, sono altri. Lì a Milano c’è Arturo Martini e, soprattutto, lì Marini si concentra sul pathos immaginativo che attribuisce al cavallo e cavaliere: qualcosa di ormai autonomo, che non c’entra più con gli Etruschi. Poi, arrivano le esperienze in Svizzera, Rodin, Richier, fino a Picasso.

Marino Marini, Popolo, 1929 Terracotta 66 x 109 x 47 cm – Milano, Museo del Novecento Collezione Marino Marini

Quando va in America, Marini capisce che gli conviene cavalcare questo legame con l’arte etrusca e da allora lui diventa “l’Etrusco”, mantenendo quest’etichetta fino agli anni ’70. Da un punto di vista storico questo è vero per gli anni dal ’26 al ’30, ma già dal ’35 si smarca. Si pensi all’Icaro, che di etrusco non ha più niente. La passione per gli Etruschi è solo una delle sue “passioni visive”. Riconosciamogliela, ma oltre a questa, come si può vedere anche in mostra, ce ne sono molte altre.

Addirittura sembra quasi espressionista con quei suoi cavalieri disarcionati.

Sì, perché nei cavalieri disarcionati lui ha visto gli album su Guernica di Picasso e ragiona su quelli. Ma quando va in America acconsente al fatto che la stampa lo presenti come l’erede di una genealogia toscana che dagli Etruschi a Giovanni Pisano a Donatello ininterrottamente aveva saputo combinare le ragioni di una forma e le ragioni di una figurazione realistica.

Certo, diventa quindi una strategia per sdoganare nel mercato dell’arte le sue opere.

In quel momento non tanto nel mercato dell’arte. C’è un dato storico a mio avviso molto importante. L’Italia era uscita dalla guerra con l’onta del Fascismo e con quella – quasi peggiore – di aver cambiato casacca. Nella strategia del piano Marshall non ci sono soltanto zucchero e farina: si danno aiuti anche per risollevare le sorti degli artisti. L’Italia deve essere sottratta all’orbita comunista e riportata nell’ambito della NATO. È più un problema politico. L’Italia deve essere lavata dall’onta del Fascismo e con lei i suoi artisti. Tant’è vero che per anni non si è studiato né il Futurismo né Sironi, perché erano fascisti.

Humphrey Bogart e Audrey Hepburn nel film Sabrina (1954) con il Piccolo cavaliere di Marino Marini

Il mito dell’Italia per gli anglo-americani è qualcosa di fortissimo, e l’arte italiana è [percepita come] un’arte di libertà, di intelligenza. Nel ’48 Soby [responsabile del Dipartimento di pittura e scultura del Museum of Modern Art di New York, N.d.R.] e Barker vengono in Italia e battono tutte le gallerie private, le istituzioni pubbliche, gli studi degli artisti per fare una grande mostra che si chiama Arte italiana del ‘900 [Twentieth-Century Italian Art, N.d.R.] con lo scopo di dimostrare che l’Italia ha diritto ad essere chiamata nazione libera, intelligente, capace. Tra gli studi che visitano c’è anche quello di Marino Marini e Soby ne rimane affascinato. Per loro i cavalli di Marino Marini sono davvero l’italianità, la modernità. Soby compra subito una scultura. In America Marino Marini diventa ben presto il simbolo dell’italian style per eccellenza.

A proposito dello stilema del cavaliere, nel suo saggio Marino Marini e la critica. Qualche fonte, una mancata storiografia e la leggenda cita Filippo De Pisis che di Marini scrive: “i suoi cavalieri sono scesi da una lucida alba dal Partenone per farsi più umani e cavalcare nelle vie degli uomini”.

Questo si riferisce ad un periodo precedente a quello americano di cui parlavo, perché il testo di De Pisis è del ’41, quindi prima che Marini vada in Svizzera, prima che lui si dedichi a piccoli cavalli e cavalieri. De Pisis conosce soltanto il gesso del ’36 e, soprattutto, il San Giacomo a cavallo del ‘39. De Pisis vuole contrastare le critiche negative di Ojetti, che aveva parlato di quei cavalli come di mamelucchi che non guardano da nessuna parte. Con questa descrizione, vuole ricostruire tutto quel pathos immaginativo che c’è dietro i cavalli e cavalieri di Marini, belli come i cavalli del Partenone ma ancora un po’ stupefatti perché hanno cambiato mondo.

Marino Marini con la moglie Marina, © Fondazione Museo Marino Marini (Pistoia)

In questa frase di De Pisis c’è qualcosa che coglie in modo quasi anticipatore quello che poi sarà e che diventerà la scultura di Marino Marini.

Sì, è così, veramente. Perché Filippo De Pisis, come tutti gli artisti, ha un modo di scrivere che non è quello del critico eppure coglie il senso delle cose. Perché gli artisti, in fondo, ragionano allo stesso modo. La monografia [dedicata a Marino Marini e presentata da De Pisis, edita dalle Edizioni della Conchiglia (1941), N.d.R.] è un libro molto bello, anche perché contiene delle foto e delle immagini d’epoca che ci permettono di capire com’era lo studio di Marino Marini.

Marino Marini davanti ai ritratti di Marina e Anita, © Fondazione Museo Marino Marini (Pistoia)

Perché il linguaggio di Marino Marini è così nuovo e così eccentrico rispetto agli artisti a lui coevi?

Credo che Marini abbia una posizione di grandissimo rilievo perché riesce a tenere insieme in un’arte difficile come la scultura la costruzione plastica delle forme, che è la base della scultura, e la capacità di comunicare sensazioni. Non siamo mai di fronte a uno scultore che a freddo costruisce le forme perché c’è sempre la bellezza, perché si insinua sempre il turbamento, perché c’è sempre qualche cosa che ci rimanda al mondo. Quando negli anni ’50 si discuteva tanto di astrazione e non astrazione, di realismo e non realismo, Marini riesce sempre – perlomeno nelle opere che abbiamo scelto e che sono in mostra – a mantenersi in equilibrio su questo crinale sottile, fra le ragioni dell’arte, che sono ragioni specifiche, e le ragioni della vita.

Nella Pomona Gori, [Pomona, 1940, bronzo, Collezione Gori, N.d.R.] ad esempio, le forme possono essere considerate quasi astratte, perché ha dei glutei che sono delle sfere. Ma, se si sale con l’occhio, si vede che Marini si è soffermato a fare la treccia che scende,  a scolpire i capelli… C’è sempre nelle sue sculture il rimando a qualche cosa di vivo, anche se in modo molto controllato, così che non diventi mai una sensualità “verosimile”. In tutte le sue sculture c’è sempre qualche cosa che rimanda alla vita, c’è sempre l’idea di inserire un particolare di realtà, che però non diventa mai realismo. Questa è una possibile risposta.

Marino Marini con Miracolo, 1955 – © Fondazione Museo Marino Marini (Pistoia)

L’altra possibile risposta, invece, è più tecnica. Nel momento in cui si discute di una scultura che dev’essere grande, monumentale, di pura forma, Marini che cosa fa? Punta sull’autonomia della superficie. In lui  – dicevo prima a proposito del confronto con la scultura di Maillol – la superficie non è una semplice “guaina”, “subordinata” alla plastica della scultura. Nelle sue opere la scultura c’è, la forma c’è, ma la superficie prende un’autonomia di per se stessa, come se Marini riuscisse a trattare in modo separato la superficie e il volume. Questa è una cosa che nessuno fa.

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Foto di copertina: © Matteo de Fina

 

Anna Trevisan è blogger, giornalista pubblicista e mediatrice interculturale. Si è laureata in filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha conseguito un Master in Comunicazione a Il Sole 24 Ore e un Master in Studi Interculturali all’Università degli Studi di Padova. Ha studiato anche a Berlino e a Londra. Per diversi anni ha collaborato con la Biennale di Venezia, nei settori D.M.T. (Danza, Musica, Teatro), Arte e Architettura. Ha insegnato italiano L2 ai bambini e agli adulti immigrati in Italia e ha lavorato come operatrice di sportello dell’Ufficio Immigrati. Ha svolto e svolge attività editoriale.
Scrive da più di dieci anni per il mensile “Venezia News”. È redattrice della rivista “Finnegans”. Collabora con il blog “Cult Tv Live Reviews”. Scrive per il suo blog “Multiculti” e per “ABCDance”, blog di danza del quale è co-fondatrice e redattrice. Per il progetto europeo “Migrant Bodies” di Operaestate Festival ha pubblicato un omonimo report e ha scritto due brevi testi teatrali, rappresentati nella tappa italiana dello spettacolo “Ethnoscape” (2015) di Cécile Proust. Per Tracciati Editore ha pubblicato i racconti brevi: “In viaggio verso dove”, nella raccolta “Tre d’amore” (2014) e “La bicicletta”, nella raccolta “Dammi Cinque” (2017).

 

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