RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba. Tancredi. Una retrospettiva”, di Saverio Simi de Burgis

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Tancredi

Tancredi Parmeggiani, A proposito dell’atmosfera norvegese I, 1959, tecnica mista su masonite, 89 x 116 cm. (Collezione privata)

Dopo la mostra tenutasi al Rizzarda di Feltre nel 2011, Luca Massimo Barbero – sull’onda di un mai eluso entusiasmo che lo ha condotto a esordire alla vernice favorevolmente per un’ulteriore prossima rassegna dedicata ai leggeri quanto ariosi disegni, in questa occasione circoscritti al solo primo periodo formativo – ha inaugurato a Venezia la retrospettiva di Tancredi Parmeggiani, presso la Peggy Guggenheim Collection. In quella stessa casa, dal 1952 al 1957, grazie proprio al mecenatismo di Peggy, l’artista ottenne consenso e successo internazionale, per poi rimettersi in gioco viaggiando l’Italia e l’Europa. Una vita certamente breve, ma intensa la sua, destinato com’era ad andare sempre controcorrente e a giocare, alla fine, il ruolo dell’incompreso nel corso della sua esistenza terrena. Nato il 25 settembre del 1927 nello storico borgo di Feltre, poneva infatti drammaticamente termine alle sue tormentate inquietudini il 27 settembre 1964, gettandosi nel Tevere a Roma, a soli trentasette anni, stroncando così, definitivamente, quelle lotte esistenziali che straordinariamente coincisero con le varie fasi di una così prolifica, quanto altrettanto breve, vicenda artistica.

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Tancredi Parmeggiani, Ricordo di Raoul, 1953, acrilico, pastello e tempera su carta applicata su masonite, 102 x 150 cm. (Museo del Novecento, Milano)

I primi disegni sono quasi tutti figurativi, nella maggior parte dei casi “ritratti”, che documentano un’impellenza di ricerca già assecondata a Belluno sotto la guida di Romano Conversano e, successivamente, giunto ancora giovanissimo a Venezia, prima al Liceo Artistico, poi al seguito di Armando Pizzinato, che lo accolse all’interno del corso di Scuola Libera del Nudo da lui tenuto presso la locale Accademia di belle arti. Come insiste Barbero, fu proprio a Venezia che venne in contatto con una serie di artisti molto attivi negli anni ’40 e ’50, che avevano trasformato la città lagunare dell’immediato dopoguerra in un autentico e stimolante laboratorio artistico. Virgilio Guidi, già da tempo affermato, che lo presentò nel ’49 alla Galleria Sandri per la sua prima personale, Emilio Vedova, già incontrato negli anni della guerra nel bellunese, i Basaldella, Santomaso, Edmondo Bacci, Luciano Gaspari, Gino Morandis, Giulio Turcato, Mario Deluigi, Vinicio Vianello, Alberto Viani, l’amico Raoul Schultz, furono solo alcuni degli artisti con i quali il giovane Tancredi in un modo o nell’altro entrò in relazione. Il clima era quello del Fronte Nuovo delle Arti che sembrava interessarlo più direttamente nella fase iniziale, quella segnata da un certo recupero cubista e post, sulla scia di Gino Rossi. Successivamente fu decisamente influenzato dall’action painting di Jackson Pollock – altro autore sponsorizzato da Peggy Guggenheim che lo farà conoscere, tramite la Biennale del ’48 e alcune sue le opere già all’epoca collezionate – e dagli artisti veneziani che più assiduamente frequentavano la sua dimora sul Canal Grande di Palazzo Venier dei Leoni.

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Tancredi Parmeggiani, Senza titolo, 1953, guazzo e pastello su carta, 70,1 x 99,8 cm. (Collezione Peggy Guggenheim, Venezia)

Fu proprio la pittura astratta, più che informale nel suo caso, sulla scia di Pollock appunto, a spingere Tancredi verso tale ricerca, coniugata sempre però a una propria cifra formativa che non gli farà mai venire meno la notevole conoscenza della tecnica pittorica, ancorata a quella dimensione storico-artistica che va dalle origini bizantine a quelle tonali e caldamente cromatiche della Rinascenza veneziana. Il must della pittura astrattista, il sine qua non della ricerca del secondo Novecento in Occidente, lo condusse a metabolizzare, come forse nessun altro artista di quegli anni, le avanguardie storiche del primo Novecento e a non nascondere una pur chiara predilezione per quella dei futuristi nostrani, Boccioni in testa. Si trattò appunto di una lenta, ma totale assimilazione di princìpi certamente innovativi, che tuttavia ritrovarono, come nel caso degli stessi artisti protagonisti del primo Novecento, linfa e continuità ideale con la tradizione precedente. Nel caso di Tancredi, a Venezia, questa sembrò essere recuperata addirittura attraverso la lezione di Klimt, interiorizzata grazie agli originali manierismi di Vittorio Zecchin, ma guardando anche a Kandinskij, Mondrian, o alla più evidente trasversalità di un Paul Klee. Credo che in tal senso vada contestualizzata la sua adesione al Manifesto del movimento spaziale per la televisione del 1952, dove la luce e lo spazio non coincidono con i buchi o i tagli di Lucio Fontana, bensì rimangono specifici della composizione pittorica, se si vuole anche ritmica e melodica, in una declinazione musicale, direi dodecafonica nel suo particolare caso. A conferma di questa chiara ed evidente perizia, fa da contraltare una delicata, ma altrettanto esperta stesura dei colori, a prescindere dal supporto utilizzato, con pennellate curate nei dettagli per risultati cromatici che non conducono a nessuna contaminazione informale o gestuale, né individuabile nella mano di un Pollock né tantomeno di Emilio Vedova.

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Tancredi Parmeggiani, Senza titolo, 1952-1953, guazzo su carta, 69,6 x 99,7 cm. (Collezione Peggy Guggenheim, Venezia)

La sua, alla fine, va interpretata come una dichiarazione di fede nella pittura a oltranza, in cui persino la rigida dicotomia tra astratto e figurativo viene meno, perché i princìpi fondamentali della pittura, in entrambe le scelte formali, rimangono sostanzialmente inalterate e non possiamo non riscontrare riferimenti alle composizioni, agli equilibri, alle strutture, allo spazio, alla luce, a quei punti e a quelle superfici che determinano la rappresentazione, qualsiasi sia la scelta intrapresa dall’artista. In fin dei conti, per Tancredi, partenza indissolubile e prioritaria rimane un concetto dello spazio esperito ancora attraverso la natura nei suoi molteplici aspetti in cui, tramite l’unità di misura dei suoi punti, si possono cogliere quelle geometrie a essa intrinseche, per lui così fondamentali per comprenderne i risultati applicati alla rappresentazione pittorica.

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Tancredi Parmeggiani, Senza titolo (Autoritratto), 1946-1947 olio su faesite, 34 x 25 cm. (Collezione Nicolino Pertile, Feltre)

Nel primo straordinario periodo veneziano, quando si avvicinò a Peggy Guggenheim, destinata a diventare una delle sue più convinte mecenati, venne accolto con generosità dalla collezionista, che adibì appositamente per lui uno studio a Palazzo Venier dei Leoni e successivamente lo spinse a frequentare altre realtà come Roma e Milano, sostenendolo anche in diverse iniziative oltreoceano, a New York in particolare, con alcune fondamentali mostre personali che gli apriranno le porte dei più riconosciuti musei internazionali. Se si seguono parallelamente le vicissitudini biografiche e quelle della ricerca artistica, si può ricostruire “una sorta di topografia della sua opera”. Effettivamente si può leggere la produzione di Tancredi in relazione agli spostamenti, non solo nei centri italiani, ma pure parigini o svedesi e norvegesi: ne esce un quadro di interessanti connessioni storico artistiche di sicura caratura cosmopolita e internazionale, sempre aperto a nuove, personali e originali suggestioni, in cui però, allo stesso tempo, riemerge sempre un necessario ancoraggio alle origini.

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Tancredi Parmeggiani, Senza titolo (Ricordo arminico), 1952, tempera su compensato, 79,5 x 121,7 cm. (Courtesy Mazzoleni, Londra – Torino)

In tal senso, come si evidenzia nei dipinti realizzati alla fine degli anni ’50, esattamente tra il 1958 e il 1960 – vedi A propos de l’eau, A proposito di Venezia o i due paesaggi norvegesi, anch’essi presenti in mostra, – emerge, probabilmente attraverso il legame che aveva maturato con Mario Deluigi, questa straordinaria ricerca sulla luce e sulle velature del colore che lega luoghi tra loro affini seppur diversi, come ad esempio Venezia e i Paesi Scandinavi, e che gli consentono di elaborare una pittura in cui, dall’irrazionalismo dell’astrazione passa a traguardare quasi l’ordine e la scientificità del pointillisme di Georges Seurat, che tanto interessava Severini a Parigi, ma anche, di riflesso, Mario Deluigi nella sua Venezia. Una ricerca sicuramente ancora europea e allo stesso tempo nostrana, quella di Tancredi, che si differenzia molto da quella più istintiva, ma meno colta, dei contemporanei artisti d’oltreoceano.

Saverio Simi de Burgis
 
 

Peggy-Guggenheim-Collection

 

Peggy Guggenheim Collection – Venezia
fino al 13 marzo 2017

Orario
Apertura 10-18 tutti i giorni
Chiuso il martedì e il 25 dicembre

 

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