RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Il pane degli ebrei. Testo di Luigi Viola

[Tempo di Lettura: 16 minuti]

כי לא על הלחם לבדו יחיה האדם
(trans. ki lo al haLechem levadò yichyè haAdam
trad. perché
non solo del proprio pane vivrà l’uomo)
Devarim/Deut.8:3

Lechem min haShamaim

       Il versetto, riferito alla manna (מָן trans.mon) ricevuta nel deserto dal popolo d’Israele, è emblematico della complessità di accezioni prospettate dalla parola לחם (lechem, qui nel senso di pane), che in questo caso sottolinea – nell’immagine del lechem min haShamaim, il pane dal Cielo, capace di dare trascendenza alla nostra esperienza del cibo – il legame che unisce terra e cielo. Sta a dire che se i bisogni del corpo sono indiscutibilmente una cosa importante e vanno dunque assolti, perché è HaShem stesso che ad ogni essere vivente ha dato insieme la vita e i mezzi per sostenerla, la realtà dello spirito si trova però al livello più elevato dell’esperienza.

Jacopo Tintoretto, Raccolta della manna (gli Ebrei nel deserto), olio su tela, Basilica di S. Giorgio Maggiore, Venezia, 1592-94

       Rabbi Akivah dibatte con Rabbi Yismael (Yoma 75a-b) chiedendosi se la manna sia identica al sostentamento degli angeli o solo uno straordinario cibo umano. Questo può riguardare la domanda se essa fosse fisica o meno.
L’orientamento di fondo del loro dibattito è che la manna fosse certamente un cibo miracoloso, quindi un fenomeno difficilmente comprensibile nella sua vera natura da parte degli uomini. Peraltro, dobbiamo imparare dalla manna per apprezzare i miracoli nascosti insiti nel cibo ordinario che mangiamo oggi.
       La natura extra-ordinaria della manna è testimoniata in Shemot/Es.16:15 dove la reazione alla caduta della manna viene così descritta: “a tal vista i figli d’ Israele si chiesero l’un l’altro: che cos’è questo (מָן trans.manmon), perché non sapevano cosa fosse”. La parola מן (man) più accuratamente traslitterata come mon cosa significa dunque? Ci sono più scuole di pensiero, ma quella che mi pare più convincente è che mon sia parola egiziana che significa “cosa”. Negli oltre 200 anni che gli israeliti avevano vissuto in Egitto, una discreta quantità di egiziano era sicuramente entrata nel loro lessico1. Quindi, quando dissero: “È la manna”, quello che in realtà stavano dicendo era “Che cos’è?” Alla fine questo è diventato il nome del cibo sconosciuto che avevano trovato.

Urs Fischer, Bread House, 2004-06

       Di questo tipo di pane che si materializza e scende dal Cielo confortando il popolo d’Israele mentre attraversa il deserto, non avanza mai niente, non è accumulabile (tranne che per la doppia porzione del venerdì necessaria a rispettare il riposo dello Shabbat), si consuma quello di cui c’è bisogno e ciò che avanza va a male: ne raccolga ognuno secondo le proprie necessità, un omer2 a testa, altrettanto ciascuno secondo il numero delle persone coabitanti nella tenda stessa così ne prenderete.” (Shemot/Es.16:16).
       Il pane dal Cielo viene digerito completamente, infatti il corpo non ne espelle alcuna parte, è il sostentamento che libera dall’assillo di doversi procurare il cibo, la pietanza ideale che prende il gusto di ciò che si vorrebbe mangiare (Yoma 75a)3, con un sapore diverso a seconda dell’età e delle esigenze di chi la mangia – come spiega Rebbe Yossi bar Rebbe Channina – poiché aveva un sapore di pane per i giovani adulti o di “frittella cotta al miele” (Shemot/Es.16:31) per i bambini, di “pasta molle oleata” per gli anziani.
       Simile al seme di gad (coriandolo bianco) e con l’aspetto come quello di una perla (b’dolach) (Bemidbar/Num.11:7-8).
       Un pane che non ha bisogno di pioggia, solo della rugiada, il nutrimento che stacca l’uomo dalla realtà materiale e lo proietta nella dimensione spirituale della Torah.
       È a questo ricordo originario che si ispira la חלה (challah), il pane bianco del sabato e dei giorni di festa.

Lechem min haAretz

       Al contrario il pane comune è il prodotto di Eretz Israel, è lechem min haAretz, il pane dalla Terra, guadagnato con il lavoro, il pane che dipende dall’uomo il quale, per disporne, deve pregare per la pioggia e lavorare la terra. Simbolo dunque dell’opera dell’uomo, l’opera dell’ottavo giorno che prosegue e completa la Creazione.

Mark Quinn, Bread Sculptures – Character Head I, made in bread, cast in lead, 1990

       Da questo pane si prelevava la תְּרוּמָה (terumah – offerta elevata) per i Sacerdoti. È il pane di chi, dopo aver pregato per la pioggia e lavorato la terra, presenta al Santuario il meglio del suo prodotto e mantiene con esso i Cohanim, il Santuario e quindi la presenza di D-o in mezzo ad Israele. La terumah realizza in tal senso il fine ultimo della Creazione.

Jana Sterbak, Bread Bed, 1996

Challah

       Il termine challah (pl. challot) deriva da chalal (perforare, fare un buco) e si riferisce in origine non al pane, ma al pezzo di impasto che viene prelevato in offerta a HKBH e dato a un Cohen (sacerdote del Tempio): “Della prima parte dei vostri impasti darete una focaccia (challah) qual tributo. Come il tributo dell’aia così la preleverete.” (Bemidbar/Num.15:20).
       Dopo la distruzione del Tempio, i chachamim (saggi), per non far dimenticare quest’obbligazione, istituirono un cambiamento e oggi, la challah – termine biblico il cui uso riferito ai pani dello Shabbat è molto tardo, essendo stato registrato per la prima volta in Austria nel 1488, nel saggio Leket Yosher del talmudista bavarese Joseph ben Moses che descriveva i pani serviti per Shabbat dalla sua insegnante tedesca –  viene prelevata e bruciata, invece di essere donata. In tutte le case ebraiche, un pezzo di almeno 30 grammi di impasto è prelevato prima di formare le trecce, avvolto in carta stagnola e bruciato nel forno4.
       Tuttavia l’obbligo di prelevarla dipende dalla quantità della farina e dagli ingredienti dell’impasto. Essa si preleva unicamente da challot fatte con farina di grano, orzo, avena o spelta che contengano acqua nell’impasto.
       Non si preleva la challah da impasti che usano meno di 1200 grammi di farina. Si preleva senza berachà (benedizione) se la farina pesata è almeno 1200 grammi. Si preleva invece con l’apposita berachà quando la farina pesata è 1600 grammi o più. Inoltre, mentre nell’antichità, per tradizione, si trattava di un pane non lievitato, dunque azzimo, fatto di cereali originari della terra di Israele, oggi la challah è un pane lievitato e soffice, di gusto leggermente dolce, come la manna del deserto che vuole evocare sia nel sapore che nel colore, ed è una delle componenti essenziali del pasto di Shabbat ma anche delle altre festività (esclusa Pesach, quando far lievitare il pane non è consentito). Il compito di prepararlo e di prelevare l’offerta dall’impasto, è compito femminile come lo è l’accensione delle candele.

Ted Sabarese, Hunger Pains, food dress, 2008

       In osservanza alla legge della kasherut5 (conformità) che stabilisce che il pane consumato di sabato deve essere parve6, neutrale, esso non contiene burro o latte ma olio vegetale, sicché possa essere mangiato insieme con la carne oppure con il latte, senza contravvenire al divieto di mescolanza. Sulla tavola di Shabbat ne sono presenti due, a misura della doppia porzione di manna che veniva elargita agli israeliti nel deserto alla vigilia del sabato e delle feste.
       La sua forma a treccia simboleggia con evidenza una ghirlanda nuziale e infatti in tutta la simbologia ebraica il Sabato è paragonato alla sposa, come recita il lechah dodi 7.
       La treccia è formata da 3-4 e 6 capi ed ogni tipo di intreccio ha un significato preciso nella tradizione: una treccia a due simboleggia l’amore, una a tre la pace, la giustizia e la verità, una treccia a 12 o due da 6 servite insieme, rappresentano le 12 tribù di Israele e questa è una delle varianti meno diffuse tra gli ebrei europei.
       Le pagnotte sono custodite all’interno di due panni di stoffa bianchi, uno al di sopra ed uno sotto, (dekel mapah) per ricordare anche lo strato di rugiada che ricopriva sotto e sopra questo cibo celeste.

Jeff Koons, Bread with Egg (Vers. 1), egg tempera over hydrocal 1995, Detroit Institute of Arts

       C’è un ulteriore non trascurabile significato simbolico suscitato dall’intreccio delle challot.
       Lo Shabbat rappresenta infatti l’idea dell’unità. Nello stesso modo in cui gli altri sei giorni della settimana sono espressione del molteplice, come le sei direzioni del mondo tridimensionale: nord, sud, est, ovest, sopra e sotto, sicché siamo impegnati in azioni e iniziative rivolte all’esterno, così Shabbat rappresenta invece la direzione opposta, orientata verso l’interno, verso lo spirito, che ci rende colmi di unità interiore con la quale si associa la Pace, l’Armonia. Per questa ragione ci auguriamo Shabbat Shalom, Shabbat di Pace e di unità, integrità, pienezza.
       L’intreccio delle challot rappresenta bene quest’idea di unità che consiste nel ricollegare ogni cosa insieme, unendo le diversità della nostra vita in una pacifica armonia e unità che solo a Shabbat appunto possiamo raggiungere e realizzare pienamente, nel rigoroso rispetto del riposo (מְנוּחָה menuchah) settimanale, la più grande e antica conquista etica dell’umanità.

Salvador Dali, Woman with a baguette on her head, 1933 – Museum of Modern Art NYC

       La forma delle pagnotte intrecciate inoltre ricorda molto quella dei semi di grano sorretti dallo stelo, a testimoniare il patto con D-o, nel creare il pane dalla terra. Spesso le pagnotte sono ricoperte con semi di papavero o con del sesamo, come simbolo della manna che cadde nel deserto. Ma le challot possono essere impastate in forme diverse, a seconda delle festività. A Rosh-HaShanah8, ad esempio, la challah è spesso realizzata in forma circolare, oppure a spirale, a forma di alveare o a forma di corona come simbolo del ciclo degli anni nella speranza di un nuovo anno che sia completo e armonioso. Nel giorno di Shabbat di Hanukkah9 invece, la pagnotta può avere la forma di una menorah, mentre a Purim 10 viene realizzata una treccia gigante chiamata keilish che rappresenta la lunga cima usata per impiccare Hamàn oppure la challah viene realizzata a forma di triangolo, la stessa dei dolcetti tipici di questa festa: gli hamantashen o orecchie di Haman.

Joseph Beuys – Nachts auf dem Flugplatz der Schakal, Braunkreuz and raisin bread on paper, 1961

Mikdash Ma’at 

       Dopo la distruzione del Tempio, l’altare è stato simbolicamente sostituito dalla tavola familiare, considerato come un Mikdash Ma’at (un santuario in miniatura) e il Pane della Presenza, dai pani di Shabbat.
       Il Pane della presenza erano dodici pani non lievitati, di pura farina di grano, chiamati challah (sing.) nella Torah, posti perpetuamente in vista nel Tempio, posati su un tavolo d’oro all’interno della stanza della Menorah11 e cambiati ad ogni Shabbat.
         “5 Prenderai pure del fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce; ogni focaccia sarà di due decimi di efa12. 6 Le metterai in due file, sei per fila, sulla tavola d’oro puro davanti al Signore. Metterai dell’incenso puro sopra ogni fila, e sarà sul pane come un ricordo, come un sacrificio consumato dal fuoco per il Signore. Ogni sabato si disporranno i pani davanti al Signore, sempre; essi saranno forniti dai figli d’Israele; è un patto perenne. I pani apparterranno ad Aaronne e ai suoi figli ed essi li mangeranno in luogo santo; poiché saranno per loro cosa santissima tra i sacrifici consumati dal fuoco per il Signore. È una legge perenne”. (Vaikrà/Lev. 24: 5-9)
       Il numero delle focacce corrisponde alle dodici tribù di Israele, poste innanzi a D-o, al quale il pane dunque diventa offerta sacrificale, un pane particolare, ottenuto da farine selezionate che rimandano alla purezza e alla prelibatezza del cibo: “Farai una tavola di legno di acacia: avrà due cubiti di lunghezza, un cubito di larghezza, un cubito e mezzo di altezza” (Shemot/Es. 25,23). “Poi pani azzimi, focacce azzime impastate con olio e schiacciate azzime cosparse di olio: di fior di farina di frumento” (Shemot/Es. 29,2).

Jean Paul Gaultier, Pain Couture, Cartier Foundation Paris, 2004

       Se la tavola è un altare, il cibo che si mangia su di essa è un’offerta. Riguardo all’offerta, Vaikrà/Lev. 2:13 recita: “Condirai con sale ogni oblazione e non lascerai la tua oblazione priva di sale, segno del patto del tuo D-o. Su tutte le tue offerte metterai del sale“. Per questa ragione, si intinge nel sale il pane.
       Da una prospettiva più mistica, nella Kabbalah, il sale che è amaro, rappresenta la severità divina e il pane, la gentilezza. Le due parole in ebraico pane, lechem (לחם) e sale, melach (מלח) contengono le stesse lettere. Il desiderio umano sarebbe quello di moderare la severità del sale con la gentilezza del pane, di conseguenza, l’abitudine comune non è di mettere il sale (severità) sul pane (gentilezza), ma di intingere il pane nel sale, cioè infondere gentilezza alla severità.
       Molti hanno l’abitudine di intingere il pane nel sale 3 volte.
       La ragione è che il valore numerico di lechem è 78. Intingendo il pane tre volte, dividiamo l’energia di 78 per 3, che è pari a 26, il valore numerico del nome di D-o. Questo ci ricorda esattamente l’enunciato iniziale, cioè che “l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che la bocca dell’Eterno avrà ordinato.” (Devarim/Deut. 8:3).
       Il sale poi è un conservante che non si rovina e non si deteriora mai. Queste proprietà uniche fanno di esso la perfetta metafora dell’eterna alleanza di D-o con am Israel (il popolo Ebraico).

       Importanza e rilevanza simbolica profonda assume pure il gesto collegato dello spezzare il pane: proprio perché esso era un alimento fondamentale e prezioso spezzarlo significa manifestare una volontà di condivisione fraterna con gli altri.

David Wojnarowicz, Untitled (Bread Sculpture) , bread, string, needle, newspaper, 1988–89

Simbologia negativa

       Esiste anche naturalmente una simbologia negativa del pane, a partire dal Bereshit quando l’uomo, posto da D-o nel paradiso terrestre, ne è cacciato dovendo guadagnare il proprio pane con il sudore della fronte, oppure quando il profeta Isaia parla del pane dell’afflizione: “Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, tuttavia non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro” (Is.30,20), o nei Salmi dove si dice “Tu ci nutri con pane di lacrime, ci fai bere lacrime in abbondanza”. (Sal.80,6) “Di cenere mi nutro come di pane, alla mia bevanda mescolo il pianto” (Sal.102,10) arrivando addirittura a parlare di un pane dell’empietà “mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza” (Mishlè/Prov. 4,17).  

Alexander Calder, Toaster, around 1942

     Tuttavia predomina senza dubbio il contesto positivo nel quale vengono collocati il grano e il pane. Come nel caso di Shavuot (Settimane). Tutte le primizie del raccolto venivano offerte a D-o, per questo un’importanza particolare viene ancor oggi come nel passato riservata alla Festa del Raccolto, una delle tre feste bibliche di pellegrinaggio chiamata Shavuot, che ricorre al sesto giorno del mese di Sivan. Gli ebrei ellenizzati le hanno dato il nome di Pentecoste perché cade 50 giorni dopo Pesach. Escludendo però il giorno stesso di Pesach, sono 49 giorni, esattamente sette settimane dopo le quali si pone termine al conteggio dell’Omer13. In quell’occasione si offrivano ad Hashem anche due pani di grano. 

 Lechem onì

       Non si può non ricordare un terzo tipo di pane, che evoca un momento fondamentale della storia ebraica, la matzah, il pane azzimo, simbolo centrale di Pesach (Pasqua), il pane della povertà, dell’afflizione, ma anche il pane della risposta (lechem onì dalla radice laanot = rispondere).

Luigi Viola, Matzah -Target, digital print on aluminium, 2015

       Il pane azzimo era uno degli alimenti che agli Ebrei in Egitto fu comandato di mangiare insieme all’agnello pasquale (Shemot/Es.12: 8). In commemorazione di quel primo pasto di Seder14 e della fretta con cui gli Ebrei lasciarono l’Egitto – non dando loro il tempo di far lievitare il pane – ancor oggi si mangia la matzah al seder di Pesach (e per tutta la durata della festività al posto del pane, mentre tutto ciò che può essere hametz15 viene allontanato dall’abitazione). Quel magro sostentamento da schiavi, quel cibo velocemente prodotto da chi si sta apprestando a scappare nel buio della notte, rappresenta però la libertà, il pane che abbiamo mangiato quando siamo stati liberati dalla schiavitù.

Chloe Wise, Matzochism Cuff Set, Oil paint, urethane, sterling silver, leather, rabbit fur, 2015

Pane e Carne

       Osserviamo che la parola lechem, che conta nella Torah ben 296 citazioni, in 188 di esse compare con il significato di pane, in altre 87 nel significato generico di cibo, alimento, in un numero minore di casi nel significato di carne, offerta sacrificale, materia che costituisce la base del pane, come orzo, grano, mais, ecc., il che per un certo verso testimonia il notevole assortimento di tipi di pane prodotti nell’antichità, pur se il popolo ne mangiava di un solo tipo, mentre i ricchi potevano disporre di una quarantina di varianti. Molto diffuso era il pane d’orzo, mentre il pane di frumento era fatto in tre modi diversi, dal più rustico al più fine, ottenendo così un pane di uso comune o un pane da festa. Ad esempio, Avraham ordinò a sua moglie di preparare un pane fine per il Signore: “Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”. (Bereshit/Gen.18:6).

Jasper Johns, Bread, embossed lead relief, rag paper and oil hand coloring, 59.1 x 43.8 cm, 1969


       Dobbiamo dunque ritenere, sulla scorta di queste varianti che in origine
lechem avesse anche il significato di qualcosa che non era pane nel senso in cui oggi intendiamo, ma semplicemente il cibo principale. Quando la farina era la base del cibo principale, allora lechem significava pane; per coloro che si basavano principalmente sulla carne, la medesima radice assunse quel significato. In arabo infatti la stessa radice lahm (al-lahoum) significa carne, come sottolinea Ruth Almagor-Ramon16.

       Anche Neta Stahl17 spiega il termine in modo simile, rimarcando che l’ebraico conserva anche parte del significato di non-pane di lechem, come nel versetto 1:17 del Sefer Tzefaniah, profeta minore del VII secolo a.e.v. contenente i suoi oracoli, che riguardano principalmente l’avvicinarsi del giudizio di D-o sui peccatori di Giuda, dove si recita: וְשֻׁפַּךְ דָּמָם כֶּעָפָר, וּלְחֻמָם כַּגְּלָלִיםil loro sangue verrà versato come polvere e la loro carne (lechum) come sterco“. Laddove l’chum si riferisce alla carne, al mangiare.

Paul Cézanne, Still Life of a Leg of Mutton And Bread, 1865 – Kunsthaus Zürich

       Ancora, in ebraico Betlemme deriva da Beit Lechem  – la casa del pane. In arabo invece si dice Beit La(c)hm – la casa della carne.
       Sorprende poi il collegamento con altre due parole che condividono la stessa radice con lechemמלחמה milchamah guerra e הלחמה halchamahsaldatura. Sia la Stahl che la Almagor interpretano che sono tutti termini collegati.
       La saldatura avvicina le cose e in guerra nei tempi antichi i combattenti erano a stretto contatto, molto vicini l’uno all’altro. Almagor afferma che allo stesso modo l’uomo esprime il concetto di una stretta vicinanza al lechem (cibo), mentre Stahl sostiene che l’associazione alla carne è precedente e osserva che il lechem (carne) è molto vicino all’osso.

James Rosenquist, White Bread, 1964

       Solo come curiosità prendo nota che nella liturgia cristiana il pane dell’eucarestia si fa – non metaforicamente – carne e corpo, saldando i due significati in uno.
       Nelle Scritture i diversi significati della parola sono comunque ampiamente testimoniati.
       In Vaikrah/Lev.03:16 e Bemidbar/Num.28:02 il termine è riferito alla carne sacrificale, mentre altrove sembra riferirsi all’alimentazione degli uomini (Shofetìm/ Gdc.13:16; 1 Shmu’el/Sam.14:24; 1 Shmu’el/Sam.14:28 (miele); 1 Shmu’el/Sam.28:20; 1 Shmu’el/Sam. 30:12; Mishlè/Prov. 22:9; Mishlè/Prov. 27:27 (latte di capra); Tehilim/Salm. 136:25) o degli animali (Mishlè/Prov. 6:8; Mishlè/Prov. 30:25; Mishlè/Prov. 65:25; Yiob/Giob.24:5; Tehilim/Salm.147:9 o alle primizie 2 Sèfer Melachìm/Re 4:42. Solo più tardi, in epoca mishnaica, i Tannaim18 hanno preferito il termine mazon per intendere il cibo e lechem per intendere specificamente il pane.

       Concludo con uno spunto offerto da Rashi. Il grandissimo commentatore medievale interpreta molto spesso lechem come cibo in generale, ad esempio in Bereshit/Gen.31:54; Bereshit/Gen.49:20; Vaikrah/Lev.03:11; Vaikrah/Lev.21:17; Vaikrah/Lev.21:21, ecc. a volte citando Yirməyāhū/ Ger. 11:19, Daniel/Dan. 05: 01 o Qoelet/Eccl.10:19, ma nell’episodio già ricordato19 in cui Avraham si offre di portare pat lechem (un boccone di pane) agli angeli, dicendo ai suoi ospiti: “permettete che vada a prendere un boccone di pane e ristoratevi il cuore”, Rashi mostra di non avere dubbio alcuno che si debba intendere lechem propriamente come pane e commenta: “nella Torah, nei Neviim (Profeti) e nei Ketubim (Agiografi) noi troviamo che il pane (lechem) ristora il cuore (lev)”. Cosa può voler dire ciò in ultima analisi?

Roman civilization Pompei – Tablinum – Fresco with the distribution of bread (second half of the first century A.D.)

       Rashi ha colto nelle parole e nel gesto di Avraham una qualità essenziale che solo il pane possiede rispetto a qualsiasi altro alimento. Avraham Avinu infatti ci suggerisce con il suo comportamento che con poca farina, ma con la perizia e l’amore necessari per impastare e cuocere quel pane si può fare molto. Offrendo un boccone di pane al prossimo si può dar vita ad una grande festa, creare una grande gioia negli animi, ristorare non solo il corpo ma la mente e il cuore stessi. 


Foto di copertina
Jannis Kounellis, installazione, Biblioteca Angelica, Roma, Photo Gabriele Malaguti, 2013

 

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Nota

Il testo “Il pane degli ebrei” di Luigi Viola è tratto da Pantagruel n.1 “La filosofia del cibo e del vino”, rivista curata e diretta da Elisabetta Sgarbi.

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Note
1. Questa è l’opinione di Rashbam e di altri. Samuel ben Meir (noto come Rashbam) era il figlio di Meir ben Samuel e il nipote di Rashi. Ha scritto due versioni di un commento su alcune parti del Talmud Bavli (babilonese), una lunga e una corta.
2. L’omer (“covone”) è un’antica misura biblica volumetrica dei cereali.
3. Il Talmud paragona la manna al latte materno che ha anche molti gusti. Rashi lo spiega riferendosi al fatto che il latte di una madre può avere un sapore come il cibo da lei appena mangiato (oltre al suo solito sapore di latte).
4. Compiendo la mitzvah di Hafrashàt Challà, la berachà da recitare è la seguente: Baruch Atà Adonai Eloheinu Melech haOlam asher kiddeshanu bemitzvotav vetzivanu lehafrisch challah terumah.
5. La normativa sul cibo e sugli altri prodotti destinati al consumo del popolo ebraico che ne certifica l’idoneità sulla base delle regole prescritto nella Torah, come interpretate dall’esegesi del Talmud e codificate nello Shulchan Aruch. Kasher (ashk. Kosher) significa adatto, adeguato, conforme, consentito.
6. Neutrale, quindi non associabile alle due principali categorie della carne e del latte o derivati, che non possono essere consumate nello stesso pasto.
7. Il canto composto nel XVI secolo e.v. dal cabbalista di Tzfat Shlomo Halevi Alkabetz che viene cantato in Sinagoga il venerdì sera per l’entrata dello Shabbat (Kabbalat Shabbat).
8. 
Letteralmente capo dell’anno, è uno dei tre capodanni previsti dal calendario ebraico. Definito nella Torah Yom Teruah “il giorno del suono dello Shofar(Vaikrà/Lev.23:24). La letteratura rabbinica lo descrive come Yom haDin “il giorno del giudizio” e Yom haZikkaron “il giorno del ricordo.
9. commemora la ri-dedicazione del Secondo Tempio all’epoca della rivolta dei Maccabei contro l’Impero seleucide. È anche conosciuta come la Festa delle luci (ebraico: חַג הַאוּרִים, ḥag ha’urim). Hanukkah viene osservata per otto notti e giorni, a partire dal 25° giorno di Kislev secondo il calendario ebraico, che ricorre tra fine novembre e fine dicembre nel calendario gregoriano. La festività si osserva accendendo le candele di un candelabro con nove rami, chiamato hanukkiah. Un ramo viene in genere posizionato sopra o sotto gli altri e la sua candela viene utilizzata per accendere le altre otto candele. Questa candela unica si chiama shamash (ebraico: שַׁמָּשׁ, “servente”).
Ogni notte, una candela aggiuntiva viene accesa dallo shamash procedendo a posizionare le candele da destra verso sinistra, ma accendendole da sinistra verso destra, fino a quando tutte e otto le candele vengono accese insieme nell’ultima notte della Festa. È usanza giocare a dreidel (piccole trottole) e mangiare cibi a base di olio, come latkes e sufganiyot, e latticini.
10. Nella Meghillat Estèr, che si legge a Purim, Hamàn grande funzionario del re Achashverosh (forse Serse I di Persia) viene fermato nel suo disegno di sterminio degli ebrei da Esther, diventata sposa del re e da suo cugino Mordechai. Hamàn aveva tirato a sorte il mese ed il giorno nei quali avrebbe realizzato le sue malvagie intenzioni. Da qui il nome di Purìm, che significa “le sorti”. La sorte indicò il 13 del mese di Adàr. Mordechài, parente di Estèr nonché capo del Sinedrio (sanhedrìn – la Corte Suprema ebraica), godeva anch’egli di un’alta posizione al servizio del re. Consigliata ed istruita da lui, Estèr intercesse in favore del popolo e denunciò il piano di Hamàn al re. In un eccesso di collera, questi ordinò che Hamàn fosse impiccato e permise agli ebrei di difendersi contro chi ne aveva voluto la distruzione. Il 14 di Adàr (il giorno seguente la data fissata da Hamàn), fu quindi scelto dai saggi come data di celebrazione per la Festa di Purìm.
11. Il candelabro a sette bracci, simbolo dei sette giorni della creazione, che doveva rimanere perennemente acceso nel tempio di Gerusalemme.
12. Misura di capacità uguale ad un recipiente che può contenere una persona cioè circa 35 litri. Corrispondeva a 10 omer, a un decimo di un comer ed uguale ad un bat.
13. Il Conteggio dell’Omer è una benedizione recitata giornalmente con cui si contano i 49 giorni che intercorrono tra la seconda sera di Pesach e la festività di Shavuot, in memoria della cerimonia dell’offerta dell’Omer che veniva effettuata presso il Tempio di Gerusalemme.
14. L’insieme delle parti che compongono un rito (propr. ordine, sequenza).
Il seder più noto è quello celebrato la prima sera di Pesach (nella Diaspora anche la seconda sera) consistente in benedizioni, atti e cibi simbolici, e nella lettura della Haggadah, il racconto dell’uscita dall’Egitto.
15. Chametz sono cibi lievitati provenienti principalmente dai seguenti cereali: frumento, orzo, segale, avena, farro. Essi sono proibiti durante la festività di Pesach. Secondo la Legge ebraica, gli ebrei non possono mangiare, possedere e beneficiare di chametz durante Pesach. Per tale motivo si effettua una particolare vendita del chametz a terzi non ebrei che libera dal possesso di tali prodotti. Questa legge appare nella Torah numerose volte; chi mangia chametz a Pesach riceve la punizione divina del kareth (escissione, espulsione), una delle pene più severe dell’ebraismo.
16. Ruth Almagor-Ramon, linguista e docente alla Hebrew University di Gerusalemme: http://msradio.huji.ac.il/wwwroot/INST/rega.doc.
17. Neta Stahl è docente alla Johns Hopkins University e Direttore dello Stulman Program in Jewish Studies. I suoi studi indagano nei campi della letteratura ebraica, della religione, della cultura, con una particolare attenzione alla rappresentazione di Yeshu e del Cristianesimo nella letteratura ebraica moderna.
18. I Tannaim furono quei saggi rabbini le cui opinioni vennero raccolte nella Mishnah, nel periodo 10-220 e.v. circa.
19. Bereshit/Gen.18:5.

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  • Luigi Viola

    Artista multimediale e docente delle Accademie di Brera – Milano e Venezia. Ha insegnato alla Scuola di Specializzazione per l’insegnamento di Ca’ Foscari. Pioniere negli anni ‘70 della videoarte italiana delle origini, ha progressivamente posto la dimensione spirituale e culturale ebraica al centro del proprio lavoro negli ultimi vent’anni. Nato a Feltre nel 1949, l’artista lavora a Venezia. Ha una formazione classica e una laurea magistralis in Lettere conseguita all’Università di Padova. È stato co-fondatore ed editore di numerose riviste d’arte: “Informazione Arti Visive” e “Qnst” di Venezia, “Creativa” di Genova e “Artivisive” di Roma. Esordisce all’inizio degli anni 70 nell’ambito delle avanguardie concettuali, con lavori di scrittura visuale, performance, video, fotografia, che affrontano in particolar modo la questione dell’identità. Intorno al 1976 approda a un linguaggio più lirico, neo-romantico, che lo riavvicina alla pittura e ai temi legati all’immaginario mitico-simbolico. Negli anni successivi, mantenendo sempre un approccio duttile verso l’utilizzo dei vari media, prosegue la sua ricerca analizzando temi connessi alla memoria, alla tradizione, alla morte, sempre attento alle caratteristiche intrinseche a ciascun mezzo d’espressione. Sue opere fanno parte degli archivi di Lux (Londra), Galleria del Cavallino (Venezia), M.o.M.A. (New York), Art Metropole (Toronto), A.S.A.C. (Venezia). Invitato alla Quadriennale di Roma nel 1975. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 1993 (Insulae & Insulae).